Due anni fa era stata Rosy Bindi a dichiarare: «La camorra è parte costitutiva» della società napoletana. Ieri il segretario generale del Censis, Giorgio De Rita, ha spiegato: «Napoli è un territorio dove il senso civico e la cultura della legalità risultano particolarmente deficitari» e di nuovo è scoppiata la polemica. L’occasione è stata la presentazione della ricerca realizzata per il ministero dello Sviluppo economico sul fenomeno della contraffazione nella provincia partenopea. «I consumatori si rivolgono all’industria del falso per acquistare prodotti griffati a prezzi sostenibili – ha proseguito De Rita – con l’errata percezione che produzione e vendita di merce falsa non siano un crimine. Fa parte della cultura, della storia, del modo di vivere napoletano». Per arginare il fenomeno, la conclusione, «occorre spingere sul pedale della sensibilizzazione dei cittadini-consumatori».

La replica è arrivata dal sindaco, Luigi de Magistris: «Non è vero che il senso civico sia inferiore rispetto ad altre città. Da quando amministriamo, Napoli ha il maggior numero di luoghi affidati esclusivamente per senso civico ai partenopei, oltre 400. C’è un forte livello di partecipazione, di antimafia sociale dei fatti». Il tema è non confondere la cultura con i reati: «C’è contraffazione, anche tanta, e c’è criminalità, tanta – ha proseguito de Magistris -. Quindi c’è un tema di repressione come in tutte le grandi città del mondo e c’è un tema di prevenzione. Il comune ha fatto uscire migliaia di persone in questi anni da un circuito di abusività: attività artigianali e autoimprenditorialità che abbiamo regolarizzato, chiedendo il rispetto del decoro e l’emersione dal nero. Altra cosa sono le attività illegali e criminali, che non possono essere tollerate».

L’analisi del Censis fornisce l’istantanea del settore, particolarmente redditizio per la camorra, che si è infiltrata in tutti i livelli della catena produttiva: acquisto e gestione tramite prestanome degli opifici del falso; distribuzione attraverso l’imposizione ai commercianti dei prodotti da acquistare o chiedendo il pizzo. I clan sfruttano anche gli ambulanti («la vendita avviene principalmente su strada a opera di cittadini extracomunitari») ma si stanno già spostando sul web. Nel 2016, rileva la nota, il 24% degli articoli contraffatti intercettati da Agenzia delle dogane e Gdf, per un totale di oltre 6milioni di pezzi, è stato scoperto nella provincia partenopea.

Tra il 2008 e il 2016, sono stati confiscati 68.942.099 articoli falsi, il 15% del totale nazionale. I prodotti più frequenti nell’ultimo anno sono stati occhiali, accessori e abbigliamento. E poi 900mila strumenti da ferramenta; oltre 500mila tra stampe, litografie e incisioni; 20mila ricambi per auto. Il business si sta espandendo su agroalimentare, giochi, medicinali e detersivi. Accanto ai prodotti finiti, ci sono i kit per l’assemblaggio: etichette, contenitori, marchi, buste che trasformano un capo neutro in uno griffato. Gli scarti di lavorazione finiscono bruciati illegalmente nell’hinterland vesuviano. Nei sottoscala e negli appartamenti convivono i padroni locali con quelli stranieri: le sartorie illegali producono a ritmi altissimi sfruttando manodopera a basso costo, sul mercato finisce merce indistinguibile dall’originale accanto a copie scadenti. Dalla Cina viene il 57,7% dei prodotti sequestrati l’anno scorso. La spesa media in oggetti falsi per ogni italiano è di 100euro all’anno. La contraffazione vale 7miliardi che diventano 19 con la filiera completa, mentre lo stato perde 6miliardi di imposte.