Una giornata di sole dopo la pioggia e il freddo che duravano da una settimana. Chiacchiere in un piccolo giardino di alberi da frutta e sembra di stare in un angolo di paradiso. Si vede il mare, laggiù, immensamente blu tra il verde intenso dei promontori che si allineano uno dopo l’altro lungo l’Istria.

Claudio Venza a Trieste lo conoscono tutti, da sempre Venza è “l’anarchia”; presente, partecipe, coinvolgente con il suo sorriso e la sua fiducia nell’umanità. Ha insegnato storia all’Università, ha scritto tanti libri e sta organizzando la presentazione del suo ultimo lavoro sull’occupazione della Facoltà di Economia a Trieste nel dicembre 1969.
Parliamo del libro, delle ricerche e degli archivi, delle carte sparite e di quelle trovate, delle interviste con i protagonisti di allora, dei giornali dell’epoca analizzati nella rilettura. E soprattutto del valore specifico che ha avuto quella occupazione in quello che era il cuore nero dell’università triestina, reazionari i docenti, indifferenti gli studenti, la goliardia che spadroneggiava: eppure proprio da lì è stato realizzata una sinergia teorica e organizzativa fondamentale per tutto il movimento.

Parliamo di noi, in fondo, ed è uno scambio, non certo uno scontro, tra una valutazione pessimista della realtà attuale e l’ottimismo di Venza che si appoggia sulla consapevolezza che si possono innescare momenti di vera rottura, nuove solidarietà e legami sempre e comunque se ci si confronta e si costruisce assieme. Non solo teoria ma pratica.

Via da quel giardino con il cuore leggero e due meline verdi staccate dall’albero. In borsa il libro che Claudio Venza ha scritto con Simonetta Lorigliola e che ancora odora di stampa, con quel titolo (“Microfisica di un movimento”) che richiama la ramificazione del potere descritta da Foucault ma che qui è quel complesso insieme di modalità, di uso degli spazi, di discorsi che il movimento mette in atto nel suo percorso di liberazione.

Due piccole mele e un libro, ma anche, una sorpresa che sembra una magia, un pacchettino legato con spago sottile: è una saponetta ma è anche un piccolo parallelepipedo profumato “resistente”, frutto della lotta operaia. Ci sono l’olio d’oliva e di ricino, le mandorle e i profumi della penisola Calcidica; sa di luce, di sole, di mare e di orgoglio operaio. Racchiude la storia di una impresa che faceva cementi collanti e solventi a Salonicco e che, nel pieno della crisi greca del 2009, si è trovata con il padrone che sparisce e la fabbrica chiusa. Poteva essere la disfatta, un centinaio di lavoratori sul lastrico. Ma gli operai si sono guardati le mani, su quelle sapevano di poter contare, si sono riuniti in assemblea e hanno deciso che…si bastavano. «Se loro non possono, noi possiamo!», gridarono.

È nata così la cooperativa Vio.Me, in autogestione collettiva: si riconverte la produzione, si cominciano a produrre e a vendere saponi e detersivi, si costruisce un forte legame con i contadini del territorio che forniscono la materia prima. Tutto naturale, tutto biodegradabile. Si allarga la rete dei soci: aderiscono simpatizzanti da tutta Europa e, un po’ alla volta, viene garantita la spedizione dei prodotti della Vio.Me anche fuori dalla Grecia.

Una cooperativa solidale che riceve e restituisce solidarietà: un magazzino diventa punto di stoccaggio e trasferimento di beni di prima necessità al confine di Eidomeni, si riempie e si svuota di vestiti, di alimentari, di medicinali; un paio di anni dopo si apre uno spazio per un ambulatorio medico aperto al territorio. Non piace al Governo la Vio.Me, i vecchi padroni la combattono con ostinazione, si susseguono negli anni i tentativi di portare gli operai in tribunale o di offrire contropartite inaccettabili purché smantellino tutto. Si cerca di vendere all’asta il terreno ma la mobilitazione popolare è al fianco degli operai e impedisce le aste. I cortei solidali si snodano per le vie di Salonicco e in qualche piazza europea.

In marzo, in pieno lockdown, la polizia in tenuta antisommossa arriva alle sei di mattina per scortare la ditta mandata a tagliare la corrente elettrica: non si è mai voluto accettare l’offerta della cooperativa di contrattualizzare quella fornitura e gli operai risultano occupatori illegali. Ma la fabbrica continua a lavorare, è ancora la solidarietà a fornire generatori e la corrente c’è. «Vi riveleremo il crimine che abbiamo commesso da quando è iniziata la pandemia», scrive l’assemblea dei lavoratori. «Abbiamo prodotto saponi da inviare al campo rifugiati di Moria, a persone che non li hanno e non possono procurarseli. Abbiamo prodotto detersivi da mandare nelle carceri che lo stato lascia in balia della pandemia. E abbiamo continuato a produrre detergenti per le famiglie degli strati popolari che non possono permettersi il lusso di proteggersi dal virus. Per lo Stato e gli imprenditori prendersi cura dei lavoratori, dei rifugiati, dei detenuti non è redditizio, perciò li si abbandona a se stessi. Eppure, quando si tratta di lotte collettive, tutto è vietato e il divieto di circolazione diventa inviolabile. Lo Stato vuole chiudere la fabbrica, fermare un impianto che produce prodotti per la pulizia in piena emergenza coronavirus e ordina la chiusura di un impianto che rispetta tutte le misure di sicurezza dei lavoratori, mentre lascia operare senza controlli le grandi imprese».

Gli operai alzano una barricata fuori dalla fabbrica, la loro fabbrica, mentre si allargano i rapporti di solidarietà: Cile, Messico, Brasile, Argentina. «Fuerza compañeros no aflojemos por mas fuerte que sea la tormenta», scrivono a Vio.Me i lavoratori di una tipografia autogestita di Buenos Aires.
Una giornata di sole, calda e luminosa, con un bel libro sulle lotte passate e una saponetta che sa di lavanda e delle lotte di oggi. Sotto il fiocco di spago sottile un cartoncino rosa con le parole del poeta greco Tassos Livaditis: «Siamo coloro che impastano, eppure non abbiamo pane, siamo coloro che scavano il carbone, eppure abbiamo freddo. Siamo coloro che non hanno nulla e stiamo venendo a prendere il mondo».