A Beirut il mare bisogna inventarlo. La costa esiste, ha assicurato approdi e scambi commerciali per secoli ma è rimosso dall’immaginario attuale; come presenza culturale, quotidiana, persino gastronomica. Il mare lo senti solo se ti ci butti dentro. A giocare un ruolo in questa assenza non è soltanto l’anima da entroterra del libanese moderno (che ama definirsi con orgoglio fenicio), ma è anche la fatica di scorgere l’acqua tra le costruzioni selvagge e capillari di Beirut. Così si apre il documentario di Valérie Vincent “Le Cèdre et l’Acier”, una coproduzione franco libanese (Darkside, A-Propos, Langages et Expressions), in procinto di essere proiettato al MAXXI di Roma il prossimo gennaio. Una voce off di un bambino ci introduce nella dialettica tra la memoria di una città e la sua storia; una città che dice welcome a tutti e poi si ritrova in mezzo alle guerre degli altri. Ma Beirut è anche i suoi quartieri, le sue comunità, i suoi condomini. Qui inizia il viaggio.

Ho vissuto per dieci anni in un palazzo storico di Beirut”, dice la regista, “e all’inizio ero così colpita dal vedere come le porte sui vari piani rimanevano aperte e non potevo lasciare il mio appartamento senza essere invitata a prendere un caffè! Così ho deciso di filmare la vita in questo condominio, per mostrarlo anche ai miei compatrioti e, allo stesso tempo, sentivo che era un modo di vivere che stava scomparendo, e questo volevo mostrarlo anche ai libanesi stessi.” Basta un giorno a Beirut per sentirla come una città difficile, forse non del tutto matrigna, ma che mette a dura prova il corpo, mentre esso cerca di trovare un posto nella città per riconciliarsi finalmente con essa.

Provo amore e odio per questa città”, continua l’autrice,” amo i venditori per le strade, e odio i rumori e la polvere; amo girare per le strade e scoprire case meravigliose, parlare con gli abitanti, e di nuovo odiare l’aggressività del traffico. Tuttavia Beirut sta diventando la città più brutta del mondo. L’acqua non potabile, l’elettricità intermittente, i miasmi della spazzatura a cielo aperto, inoltre ogni giorno si distrugge ciò che la rende affascinante e particolare. Io non sono contro il progresso ma è inaccettabile vedere come delle torri di venti piani siano costruite accanto a delle piccole case tradizionali; o come siano mandate via intere famiglie, commercianti, per fare edifici di lusso che poi rimangono vuoti. Non si potrebbero costruire questi edifici in un quartiere specifico?”

Valérie non è l’unica a porsi questa domanda. Il martirio a cui sono sottoposte molti edifici (quelli che restano dalle demolizioni) del periodo Ottomano e del mandato francese è costante e visibile. Volenterosi architetti, progetti come la Ong “Save Beirut’s Heritage”, iniziative di privati, cercano di porre rimedio alle sciagurate decisioni o indecisioni della politica. Cosa resta della Parigi del Medio Oriente? Dal 1932 non c’è un censimento e per le Nazioni Unite la stima, periferie escluse, è di 470.000 abitanti, senza dimenticare i rifugiati siriani e la presenza palestinese. Anche le statistiche sulle gemme architettoniche sono vaghe: uno studio del 1997, non concluso, della Direzione della Pianificazione Urbana, conta 570 edifici di cui oggi almeno 150 sono andati perduti per sempre. Tuttavia se non demoliti questi edifici restano decomposti e spettrali a meno che i proprietari non decidano di restaurarli. Troppe gocce nel mare che non c’è e qualche storia fortunata come quella del Barakat, costruito nel 1924 e situato nella Green Line durante la guerra civile, trasformato nel 2012 in un centro culturale, il Beit Beirut. In questo giro di ruspe e resurrezioni ci si chiede dove sia seppellita la memoria.

La memoria è una parte essenziale di una nazione. Le pietre non sono l’unica cosa che crolla ogni volta che un edificio è demolito o un quartiere viene riconfigurato. Le storie, le memorie vengono giù, e le tradizioni finiscono nell’oblio”, conclude Valérie.

In “Le Cèdre et l’Acier”si dà spazio alle voci del quartiere, alle vecchie foto in un cassetto, alla coscienza civile di chi scende per strada gridando che Beirut non è Dubai, senza mai essere pedante, ma con la leggerezza dello straniero, né troppo vicino né troppo lontano per raccontare un luogo. Un luogo che è un teatro, il teatro un espediente per raccontare il proprio malessere, come succede ai giovani protagonisti del documentario e come la città stessa dimostra, mentre copre i suoi balconi con lunghe e pesanti stoffe per chiudere un sipario.