Undici novembre 1918, Edmond Rostand, l’autore del Cyrano, è a Parigi. A mezzogiorno sente il colpo di cannone che annuncia l’agognato armistizio. Scende in strada unendosi alla folla. «Adesso possiamo anche morire!», dice abbracciando un amico. Morirà il due dicembre colpito dall’influenza spagnola.

Nell’ottobre del 1918 a Vienna, Egon Schiele aveva appena finito di dipingere Coppia accovacciata, un autoritratto familiare che anticipava la prossima paternità: quel figlio non nascerà mai perché dapprima morirà la moglie Edith e tre giorni dopo, il 31 ottobre, lo stesso artista. Non era la prima vittima illustre tra gli artisti della Wiener Secession: Gustav Klimt, colpito da ictus l’11 gennaio 1918, al rientro dalla Romania è ricoverato a Vienna e lì si contagia, morendo il 6 febbraio a cinquantasei anni. A Parigi, Guillame Apollinaire scriveva: «È giunto il tempo di riaccendere le stelle», sperava di poter vedere un mondo finalmente in pace, ma la Spagnola se lo portò via il 9 novembre 1918.

Più a nord, in Norvegia, Edvar Munch dipingeva Auritratto dopo l’influenza spagnola: fu più fortunato riuscì a sopravvivere alla pandemia e con lui anche Walt Disney, Ernest Hemingway, John Dos Passos, Franz Kafka. Sono vittime illustri, ma con loro moriranno dai trenta ai sessanta milioni di persone: una catastrofe. Il micidiale virus H1N1 comparve nell’autunno 1917 a Fort Riley nel Kansas, un campo di addestramento militare americano; vi erano concentrate cinquantamila reclute pronte per andare a combattere nei campi di battaglia europei. Saranno loro a importare il contagio nel vecchio continente diffondendolo rapidamente nella grande concentrazione di uomini sui campi di battaglia.

Un’apocalisse più tragica della Black Death del Trecento si abbatté sull’intero pianeta, ma il suo destino fu di diventare una «strage invisibile». La pandemia, malgrado sia stata una delle peggiori catastrofi della storia, non sembra aver lasciato tracce letterarie o filmate, nemmeno di secondaria importanza. Un’inspiegabile amnesia generale, una «congiura del silenzio», come se l’intera umanità avesse voltato le spalle all’evento per non vederlo. Le possibili ragioni sono legate alla guerra: durante il conflitto bisognava non creare panico né «disfattismo» tra la popolazione e la censura impediva che la stampa desse eccessivo risalto alla vicenda. Il presidente Wilson nell’ottobre del 1918, quando già quasi duecentomila americani erano morti, imponeva che si desse il minimo risalto alla pandemia per non creare un clima di pessimismo che avrebbe danneggiato lo sforzo bellico e i vari Stati non ricevettero alcuna assistenza dal governo federale né dalla Food and Drug Administration (e Trump, cent’anni dopo e senza una guerra da vincere, non è da meno: «Our people are full of vim and vigor and energy. It’s not for our country», avviandosi ai centomila morti).

Wilson era più preoccupato del successo del quarto Liberty Loan, il bond per finanziare il conflitto, che a contenere il virus (equivalente dell’ossessione trumpiana per lo stock market). Finita la guerra, la sospirata vittoria oscurò la strage e a quel punto chi aveva vinto voleva festeggiare e chi aveva perso dimenticare (i morti erano solo gli eroi di guerra in divisa e non quelli di una «banale» influenza). La Spagnola si legò pertanto all’immane disastro della Prima guerra mondiale e ne diventò parte integrante, una sorta di appendice anche storiograficamente (è spesso citata di sfuggita come se non fosse stato il più grande cataclisma demografico).

Se gli storici hanno calato un incredibile silenzio sulla strage, anche il cinema e la letteratura non se ne sono occupati. Film di fiction direttamente legati all’epidemia non furono girati ed esiste solo qualche frammento di newsreel. Chi avrebbe mai avuto voglia dopo quattro anni di guerra di «divertirsi» andando a vedere una storia di morte? Si aggiunga il poco «appeal» dal punto di vista melodrammatico che un’influenza, anche colossale, aveva. Furono realizzati film legati solo metaforicamente al clima pestilenziale provocato dalla guerra e, non a caso, in Germania. Pensiamo a Pest in Florenz di Otto Rippert del 1919 con sceneggiatura di Fritz Lang ambientato nel Rinascimento, ma generato dalla tragica situazione sociale con il crollo del secondo Reich tedesco. Lang, nel 1948, ricorda quel clima: «In Europa un’intera generazione di intellettuali si votò alla disperazione e anche in America intellettuali e artisti caddero nel pessimismo. In tutto il mondo, i giovani impegnati in campo culturale, e tra loro anch’io, sposarono la tragedia passando dall’ingenuo ottimismo sentimentale del diciannovesimo secolo all’altro estremo del pessimismo per principio». La peste nel film punisce la lussuria di Firenze e «con il suo ghigno giallo la Morte si fa avanti in mezzo alla dissolutezza nessuno può resistere, nessuno può sfuggire. La città della gioia e del godimento si trasforma in un teatro dell’orrore». Nel film di Rippert, l’epidemia è la reazione della Natura alla corruzione morale dei fiorentini, un sacrificio necessario per ripristinare l’equilibrio e la morte come unica possibile redenzione dal Male. È l’atmosfera cupa della Germania della disfatta bellica ad alimentare un senso di generale pessimismo; ricorda Lang «un mattino abbiamo visto dei manifesti sui muri di Berlino che mostravano una donna seminuda che ballava con uno scheletro ed una scritta: Berlino tu danzi con la morte».

La peste torna nel cinema tedesco nel 1922 con il Nosferatu di Murnau. Dalla lontana Transilvania (le pandemie, chissà perché, arrivano sempre dal lontano est) approda a Brema il vascello spettrale del conte Orlok, dalla nave i topi sbarcano e invadono la città seminando il morbo e di lì a poco nelle strade si susseguono le processioni dei becchini che portano alle fosse comuni le vittime della pestilenza. Segnali di una letale malattia sociale accompagnavano l’uscita del film di Murnau: sei mesi prima Adolf Hitler era diventato presidente del partito nazionalsocialista dando il via alle Sturmabteilung, le camicie brune. Antonio Gramsci scriveva: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri». La «sinfonia dell’orrore» stava per ricominciare con una nuova pandemia a croce uncinata. Ma, attenzione, Orlok, il sempre-vivo, non è mai scomparso: non è bastato un raggio di sole a dissolverlo.