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Il cavaliere nel pallone: padrone dell’interregno

Il cavaliere nel pallone: padrone dell’interregno

Silvio Berlusconi 1936-2023 Ha portato un gioco che nasce come prodotto dell’industria culturale e dell’espansione coloniale europea a sublimarsi in uno spettacolo televisivo globale

Pubblicato più di un anno faEdizione del 13 giugno 2023

L’interregno nella storia è quel periodo tra la scomparsa del vecchio sovrano e la comparsa del nuovo. Nella filosofia, con le parole di Gramsci, quel momento di crisi in cui il vecchio muore e il nuovo non può ancora nascere. Nel calcio globale l’interregno è stato il Milan di Silvio Berlusconi. Un momento di passaggio in cui il calcio industriale stava scomparendo per lasciare il posto al calcio finanziario. Una fase di crisi, di vacuità o assenza, di cui l’uomo di Arcore, arrivato troppo tardi per essere l’ultimo dei grandi padroni e troppo presto per essere il primo dei nuovi prestanome, si è impadronito con capacità e arguzia. Portando una squadra dall’orlo del fallimento al tetto del mondo.

BERLUSCONI ACQUISTA ufficialmente il Milan il 20 febbraio 1986 dal discusso imprenditore Giuseppe Farina, con cui la squadra rossonera era rimasta invischiata nel Calcioscommesse, era precipitata due volte in Serie B e stava fallendo. Lo fa annusando la crisi, approfittando delle sue contraddizioni. Voleva prendere l’Inter, squadra che aveva sempre tifato e per cui andava a San Siro con il padre, ma prima Ivanoe Fraizzoli e poi Ernesto Pellegrini non gliela vendono. Allora prende il Milan. E lo fa con alle spalle il sostegno della borghesia illuminata milanese, dei giornali progressisti, delle manifestazioni di piazza cui partecipa la Curva Sud, composta da attivisti dei centri sociali. Lo fa con l’appoggio di quelle composizioni di classe che pochi anni dopo si ritroveranno a indignarsi, fare inchieste o scendere in piazza contro di lui.

IL CAVALIERE VENDE ufficialmente il Milan il 13 aprile 2017 al misterioso imprenditore Li Yonghong, di cui nessuno ha mai certificato l’esistenza. Di Li resta un video, girato in uno stand espositivo di Mondo Convenienza spacciato come fosse il suo ufficio. E un clamoroso passaggio di soldi che attraverso paradisi fiscali, società di comodo e scatole cinesi, partono da chissà dove e finiscono nella cassaforte di Fininvest. Entrano circa 700 milioni di euro. Mentre la società rossonera, nei bilanci Fininvest che ne controllavano il 99%, era iscritta per un valore di 300 milioni. Esattamente quelli che mette Elliott, il fondo speculativo che dopo la definitiva scomparsa di Li (un mancato pagamento di 32 milioni, un’inezia davanti ai soldi che circolavano) si ritrova padrona del club per rivenderlo, con un’ennesima operazione a leva, a un altro misterioso fondo (il cui prestanome è tale Gerry Cardinale) prestandogli i soldi per farlo. Ecco l’interregno nella sua più plastica rappresentazione. Berlusconi entra nel calcio dei Lugaresi, dei Rozzi, dei Sibilia, dei piccoli padri padroni che usavano il pallone come mezzo di controllo del territorio sociale e della produzione locale. E ne esce lasciandolo nelle mani dei fondi finanziari globali, americani speculativi o arabi sovrani.

Craxi e Berlusconi

E IN QUESTO PERIODO di crisi, assenza o vacuità Berlusconi non cambia il calcio, ma si fa interprete e sintomo del suo cambiamento. Non tanto perché in 31 anni di presidenza vince 29 trofei – 5 Champions League, 8 scudetti, 1 Coppa Italia, 7 Supercoppe italiane, 2 Coppe Intercontinentali, 5 Supercoppe Uefa e 1 Coppa del mondo per club – ma perché lo fa secondo i parametri delle logiche culturali della sua epoca, ovvero quelli del postmodernismo o tardo capitalismo: il pastiche, la copia, la replica svuotata di senso. D’altronde la sua unica fatica letteraria è una prefazione all’Utopia di Tommaso Moro, letta da destra come ideale di una società perfetta, immobile, priva di contraddizioni e conflitti.

L’UTOPIA NEGATIVA berlusconiana, più ancora che nell’edilizia di Milano 2, tentativo abbandonato quasi subito perché difficilmente replicabile altrove, si realizza nel pallone. Quale è il metodo di gioco più vendibile a livello televisivo, si chiede l’imprenditore che sta acquisendo televisioni, giornali e case editrici, che prima ancora di prendere il Milan si era assicurato nel 1982 i diritti televisivi (anche qui l’intuizione in largo anticipo sui tempi) del Mundialito? La zona, con il pressing a tutto campo, che tiene incollati gli spettatori anche non tifosi. Spettatori che, Berlusconi intuisce, in breve tempo andranno proprio a sostituire i tifosi come bacino di utenza dello spettacolo calcistico. E allora prende l’allenatore Arrigo Sacchi, che della religione della zona è sommo profeta. Quale è la squadra che più di tutte ha fatto sognare a livello estetico e spettacolare? L’Olanda del calcio totale. E allora compra i migliori calciatori olandesi sul mercato: Ruud Gullit, Marco van Basten e Frank Rijkaard.

FA UNO SGARBO alla famiglia sovrana degli Agnelli, infrangendo lo ius primae noctis bianconero e comprando a suon di miliardi il loro promesso sposo Roberto Donadoni dall’Atalanta, ma pochi anni dopo si ritira di buon grado quando capisce che l’acquisto di Roberto Baggio dalla Fiorentina significa perdere i supermercati Standa. Il Divin Codino andrà alla Juve. Accumula immagini e repliche fino a trasformarle in spettacolo. La presentazione della squadra all’Arena di Milano mentre gli altoparlanti sparano a tutto volume la Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Gli elicotteri a Milanello. Il pallone utilizzato come immenso sport pubblicitario per unire l’inutile al dilettevole e costruire egemonia culturale nel paese.

IL CALCIO COME CONSENSO politico, sulle orme di grandi dittatori come Mussolini, Médici, Videla e Ceausescu, o più modestamente capitalisti locali come Agnelli, Franchi, Moratti e Lauro. La Coppa dei Campioni del Milan di Fabio Capello sollevata pochi mesi dopo le incredibili elezioni del 1994, l’inno e il nome del partito preso dallo slogan della nazionale (anche qui replicando quello che la dittatura brasiliana fece con la canzone Pra Frente Brasil negli anni Settanta), i grandi acquisti elettorali (Rui Costa nel 2001, Ronaldinho nel 2008) o le mancate cessioni (Kakà nel 2009) che i sondaggisti si ingegnavano a capire quanti voti avrebbero spostato.

SILVIO BERLUSCONI non ha cambiato il calcio, come non ha cambiato l’Italia, ma ha accompagnato e sublimato quel periodo di crisi detto interregno. Quel periodo di cambiamento in cui il pallone dai reparti confino dell’industria fordista aveva cominciato a rotolare verso le fibre ottiche su cui viaggiano i numeri binari della finanza globale. Lo ha fatto creando uno spettacolo fatto di sole repliche, e quindi non più replicabile, che ha trasformato il sogno di milioni di tifosi in un incubo politico. E viceversa. Portando un gioco che nasce come prodotto dell’industria culturale e dell’espansione coloniale europea a sublimarsi in uno spettacolo televisivo globale che si basa sugli stessi algoritmi che si applicano ai mercati e alla logistica. Nei 31 anni un cui è stato anima e corpo del Milan, Silvio Berlusconi è stato il miglior interprete della crisi del calcio. E della nostra crisi.

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