Dunque, per i tedeschi «i Lager non sono mai esistiti». Così Silvio Berlusconi, non nuovo a dichiarazioni di tale genere, o ad esse assimilabili per la loro enfasi, in piena campagna elettorale, occhieggiando al composito e crescente fronte antieuropeista. Si può reagire in molti modi all’irritante tracotanza con la quale l’ex presidente del Consiglio liquida questioni così complesse e delicate, tali da costituire la nervatura scoperta, e quindi ancora dolente, della coscienza europea. Trascurarle o attribuirle alla naturale esuberanza di un personaggio che calca in maniera indefessa la scena politica del nostro paese, occupandola stabilmente, da più di vent’anni, avendo inoltre dato ad essa i suoi attuali caratteri antropologici, quelli maggiormente diffusi, è tuttavia un errore clamoroso. Poiché Berlusconi non esprime mai una «voce dal sen fuggita», inscrivendo semmai le sue affermazioni all’interno di un campo di significati che incrociano con forza un certo comune sentire di parte degli italiani.

Infatti, nel corso degli anni, è andato componendo una vera e propria sintassi politica della svalutazione civile e morale della convivenza. Un aspetto, questo, del quale non ci si libererà tanto facilmente, costituendo una sorta di nuova costituzione materiale, quella che si è sostituita, per più aspetti, alla Costituzione repubblicana. Va da sé che sia parte costitutiva del suo modo di agire la politica l’accostarsi ad essa con il medesimo metro con il quale tratta altri aspetti delicati della coesione sociale, ossia quello della spacconaggine e dell’incontinenza. Anche per questo, peraltro, nel passato è piaciuto a molti, raccogliendo un diffuso consenso che, del tutto plausibilmente, continuerà ancora in parte a mietere. Come e per quanto saranno le urne a dirlo. Silvio Berlusconi ricalca ed enfatizza un desiderio comune tra una parte degli elettori italiani, soprattutto collocati nel centro-destra (ma non solo): quello di rivestirsi dei panni di iconoclasti, recitando la parte di chi denuncia che il Re è nudo, nel mentre ci si adopera per mantenere inalterata la fisionomia dei poteri costituiti.

Sulla voluta confusione e sulla manomissione del significato delle parole, dove la regressione si presenta come «rivoluzione», ci sarebbe da scrivere un’intera biblioteca. Senza scomodare paralleli impropri, basti comunque ricordare che è da sempre l’asse portante della proposta politica della destra populista, con un significativo passaggio dalle parti del programma dei fasci di San Sepolcro del 1919, sintesi per così dire sublime della perversione del senso delle cose. Dopo di che, qualcosa va tuttavia ancora aggiunto. Perché ad ogni stagione politica corrispondono moventi e atteggiamenti diversificati. Qualcuno potrà sbadigliare dinanzi alle boutade del leader di Forza Italia, ritenendole un film già proiettato e, quindi, rivisto più volte. Ma l’inflazione della comunicazione, modulata di volta in volta in base agli obiettivi da colpire o ai target da raggiungere, è una delle chiavi della longevità politica di Berlusconi. Il quale ha da sé la forza della grande banalizzazione. Una qualità, segnatamente, che diversi altri politici, anche di sponde molto diverse, in fondo gli invidiano, essendo divenuta un tratto imprescindibile nella altrimenti senescente e sclerotica funzione di rappresentanza che è esercitata dalle attuali classi dirigenti.

Colpire i valori condivi, tanto più quando essi sono il prodotto di una lunga, complessa, articolata e stratificata negoziazione, gettandoli nella mischia della polemica di basso profilo, volgarizzandoli e trascendendoli nella prevedibilità della chiacchiera a perdere, costituisce una procedura in completa sintonia con l’ispirazione liberista che è alla radice tanto dei populismi quanto delle tecnocrazie. Un terreno in comune, anche se poi i modi di parlare e di fare possono differire, e anche di molto. Per intenderci, è quell’ipocrisia del «non dobbiamo avere tabù». La sconsacrazione berlusconiana non si esercita tanto contro la storia, che a un tale personaggio interessa assai poco, reputandola perlopiù una mera emanazione del suo egotismo, quanto nei riguardi di una comune memoria. Un esercizio di dissacrazione, quest’ultimo, che viene presentato al grande pubblico come un atto di emancipazione, ancorché falsa, da quelli che vengono denunciati come «luoghi comuni»: quelli della Resistenza, della lotta di Liberazione, dell’opposizione politica ai fascismi e, più in generale, alla stessa intelaiatura costituzionale della nostra democrazia nonché contro molto altro.

L’obiettivo di prospettiva non è solo il martellare ossessivamente avverso i «comunisti» (una sorta di categoria metafisica estendibile a piacere, un sorta di manifesto permanente contro il pluralismo culturale, morale e valoriale) e la «sinistra», ma anche e soprattutto nei riguardi della stessa democrazia, quand’essa sia il campo della diversità e della varietà umana, a partire dalla sua architrave europea. L’autoritarismo implicato, o comunque richiamato, da questo atteggiamento non è peraltro mai autoreferenziale, incrociando semmai la diffidenza, se non la paura, che una parte della società italiana nutre verso il mutamento e le implicazioni che da esso derivano. La forza attrattiva dell’ideologia berlusconiana è quindi quella di tradurre tali angosce in risentimento strutturale, avendo a bersagli figure stereotipate che diventano, con la forza delle sue parole e della loro amplificazione, veri e propri archetipi populistici. Gli è riuscito, per un ventennio, in Italia; l’ondata antieuropea non è detto che non possa favorirne, rinnovandogliele, le fortune, adesso che l’asse politico continentale tende sempre più spesso a spostarsi a destra.

Nel gioco delle semplificazioni non a caso Berlusconi, con cognizione di causa, la sua per intenderci, mette nella stessa risma i campi di concentramento, le deportazioni, lo sterminio degli ebrei ed Israele. Stabilendo un nesso di assoluta congruità e di immediata traslazione tra soggetti, eventi, situazioni e contesti contigui ma non necessariamente omologhi. Più che un revisionista di grana grossa, o un opportunista del momento, come certuni sarebbero portati a giudicarlo, si comporta da reversionista. Ovvero da colui che del passato prende in considerazione, di volta in volta, unicamente ciò che gli può interessare per ricostruire incessantemente la sua immagine pubblica e rigenerare una qualche forma di seduzione degli elettori. La reversione è una prassi per la quale non solo quanto è avvenuto concretamente viene sezionato e decontestualizzato, destoricizzandolo del tutto dall’ambito in cui si è verificato come fatto storico acclarato. Nella reversione opera il permanente ribaltamento dei significati. Ogni cosa può essere intesa come l’esatto opposto di se stessa. Soprattutto, può essere assunta, ed enfatizzata, nel discorso pubblico così come può essere, non meno repentinamente, tralasciata, abbandonata e dimenticata. Per un maestro della pop-politica, l’autentico sacerdote del populismo 2.0, questo orizzonte è il vero cuore pulsante della sua identità pubblica. Tutto è virtuale, nulla deve essere virtuoso, in fondo. Anche perché lo spazio pubblico, per Berlusconi, coincide con la proiezione del suo privato. Nulla di meno, nulla di più. Con buona pace della storia, della memoria e dei processi di rielaborazione collettiva del passato. Infatti, non esiste passato, ci dice l’ex premier, che non sia una semplice proiezione delle proprie fantasie. Da scomporre e ricomporre come i mattoncini del gioco del Lego.