Quante volte, nel nostro provincialismo, qualcuno ha tirato fuori la bellezza del «confronto all’americana» tra i candidati, con regole chiare e dibattito vis a vis sui programmi? O l’importanza del grande evento in diretta tv come strumento per «parlare agli indecisi»?

Tutte queste suggestioni sono state spazzate via con il primo dibattito Trump – Biden.

Se perfino i politici più importanti d’America non riescono a discutere 120 secondi a turno senza insultarsi, come potranno farlo i vari John e Mary e Tom nelle strade e nelle case, con i propri vicini o con chi la pensa diversamente?

Osservare i 90 minuti di rissa di quello che è già stato eletto come «il peggior dibattito presidenziale della storia americana» ha lasciato sgomenti non solo gli elettori Usa, ma chiunque provi simpatia per una forma di governo tanto imperfetta come la democrazia.

Una democrazia privata delle sue liturgie, delle sue regole e procedure, delle sue forme non scritte (come il rispetto dell’avversario o il «pacifico trasferimento del potere» a chi prende più voti) si trasforma in un incubo plebiscitario o in una sterile rissa da social, quel «catfight» virtuale, cacofonia di frasi aggressive una dopo l’altra, in cui le posizioni diventano insulti e in cui alla fine non c’è nessun traguardo ma solo l’esaurimento delle forze di chi vi partecipa o dell’attenzione di chi guarda.

Non a caso il pubblico non ha gradito. Solo 29 milioni di persone si sono sintonizzate sulle grandi tv via cavo, molte meno dei 48 milioni di quattro anni fa al dibattito con Hillary Clinton. (L’aggiornamento in calce con le stime definitve sfuma il dato dei primi rilevamenti, nda).

Trump e Biden nel primo dibattito presidenziale a Cleveland, foto Ap

La centralità delle televisioni nell’arena politica è ancora importante anche se ovunque in evidente declino. Un dibattito presidenziale che trascende in uno scambio di urla e tweet al vetriolo rischia di impallidire quando a twittare e postare saranno milioni di elettori dopo il 3 novembre.

L’incubo dei giganti della Silicon Valley, infatti, è come governare la mole immensa di falsi proclami di vittoria, frasi razziste e minacce violente che dilagano e dilagheranno da costa a costa, spesso avallate o diffuse direttamente dalla Casa bianca.

Già quattro anni fa, con il caso Cambridge Analytica, il ruolo strabiliante dei social è emerso in tutto il suo cupo potere. Oggi è peggio.

Con la pandemia le campagne elettorali si sono spostate armi e bagagli su Internet, che è diventata la nuova e unica realtà pubblica condivisa, mandando in cortocircuito regole antiche e misure di paragone.

Se Biden e Trump si dichiareranno entrambi vincitori su twitter, facebook o youtube, cosa dovranno fare i social network?

Solitamente, infatti, il risultato delle presidenziali si conosce alcune ore dopo il voto, magari quando si assegna uno stato chiave in bilico. Ma stavolta, causa Covid, rischia di essere tutto diverso: il conteggio delle schede postali durerà settimane.

E Trump ha messo in chiaro che non è disposto a riconoscere l’eventuale sconfitta, anzi, è pronto a ricorrere alla corte suprema appena ce ne sia la possibilità. Oggi nessuno è disposto a scommettere su cosa succederà per le strade e nei tribunali nel periodo di transizione fino al giuramento del presidente che dal 1937 si svolge il 20 gennaio ogni quattro anni.

Sostenitori di Trump a un comizio in Wisconsin, foto Ap

Lo scenario di un Trump barricato alla Casa bianca con il paese in rivolta è già entrato nei «war game» del Pentagono e dei giganti del web.

Perfino Mark Zuckerberg, padrone di facebook, si è detto «preoccupato per il rischio di disordini» dopo il voto.

Twitter (il social preferito da Trump) ha messo nero su bianco che non consentirà «tweet che minano la fiducia nel processo di voto o proclamano falsamente una vittoria». Facebook, più evasivo, ha detto che non accetterà post a pagamento di questo tipo, mentre Google non accetterà più pubblicità politica di ogni genere dopo il 3 novembre.

Virus letale, crisi economica, inquinamento globale, «tribù» armate per le strade… ciascuno da solo è un buon ingrediente per un film distopico su una civiltà a rischio estinzione. Ma oggi sono problemi simultanei, in mano al presidente più impopolare della storia e incapace di rispettare diplomazia e regole non scritte che sono l’ossigeno della democrazia (per Trump è un problema perfino mostrare la propria dichiarazione dei redditi!).

Con una conseguenza in più. Già da anni le campagne elettorali americane sono diventate macchine di propaganda e di lobbying da centinaia di milioni di dollari. Togliergli anche quei pochi attimi di ottusa e tranquillizzante liturgia (le convention, i dibattiti, i «town hall», la telefonata del perdente al vincitore, etc.) strapperebbe a una democrazia sempre più in crisi anche gli ultimi brandelli di dignità.

Questo, forse, rischia di essere il lascito più duraturo di Donald Trump, non solo al suo paese ma anche al resto del mondo.

aggiornamento del 2 ottobre 2020

I calcoli definitivi elaborati da Nielsen sull’audience televisiva del primo dibattito affermano che è stato visto da 73 milioni di persone, con un picco di 68 milioni che si è mantenuto costante fino alla fine. Il primo dibattito Trump-Clinton del 2016 fu visto da 84 milioni di persone.