La tutela della maggioranza. Enrico Letta presenta il suo (nuovo) programma alla camera e al senato spiegando, e non è la prima volta, di voler «giocare in attacco». Ma la preoccupazione che traspare evidente è tutta difensiva. Proteggere il governo, esposto a un quadro politico diversissimo rispetto a quello che ne ha segnato la nascita. Difendere la compagine selezionata dalle larghe intese dalla mutazione di quella formula. Uno degli azionisti di aprile, il Pdl, non esiste più, gli eredi legittimi sono all’opposizione e il loro capo fuori dal parlamento. L’altro azionista, il Pd, ha cambiato marcia e segretario, e anche lui è fuori dal Palazzo. Per questo Letta si blinda nel programma, e ricorda che ha l’ambizione di durare un anno soltanto, avendo però l’ambizione di uscirne rafforzato nella leadership. Matteo Renzi ha un obiettivo uguale, e dunque contrario.

La trazione governativa
I capisaldi della strategia di durata esposta da Letta sono tre argomenti di schietta competenza parlamentare: riforme costituzionali, legge elettorale e anche il sacrificio dei partiti – ai quali si avvia a tagliare tutti i finanziamenti pubblici per decreto (favorendo, dice con una certa esperienza Berlusconi, «il ritorno di Tangentopoli»). Il premier si ricorda di restare nei confini del potere esecutivo solo quando si tratta di parlare di amnistia, a quel punto si ritrae e non va oltre l’omaggio a Napolitano: «Il parlamento deciderà in piena autonomia». Sulle modifiche costituzionali, evidentemente, no. Al senato sta per arrivare il disegno di legge costituzionale con il quale il governo si propone di chiudere con il bicameralismo paritario. Tra le tante ipotesi in campo, amplificate dal dibattito dei «saggi» del ministro Quagliariello, sarà il governo a scegliere. Preferirà un senato eletto contemporaneamente ai consigli regionali, che non dovrà più votare la fiducia al governo ma, anticipa Letta, «esprimerà più compiutamente il disegno costituzionale di raccordo con le autonomie».

Le riforme, dice Letta non casualmente, «occupano il primo posto». Prima ancora della legge elettorale, che però è quella sulla quale Renzi ha imposto la scadenza più urgente: approvazione definitiva entro maggio. Per le riforme, invece, il conto alla rovescia l’ha fatto partire lo stesso presidente del Consiglio, sette mesi fa. Ne restano undici e resta solo il percorso ordinario dell’articolo 138, essendo fallita l’ostinazione del governo di derogare a quella regola per una semi totale riscrittura della Carta. Servono adesso quattro votazioni conformi delle due camere, le seconde due a distanza di tre mesi. Serve che i senatori accettino di ridimensionarsi, e i parlamentari tutti di diminuirsi drasticamente, peraltro andando in direzione opposta alla dichiarata intenzione di Letta di migliorare il rapporto tra rappresentati e rappresentanti. Serve dunque un miracolo, affidato a una maggioranza più esigua e a un parlamento azzoppato nella credibilità dalla sentenza della Consulta sulla legge elettorale. Più probabile che saranno ancora le riforme al servizio della tenuta del governo, piuttosto che il contrario. Ed è per questo che persino sulle modifiche costituzionali Letta si muoverà dal recinto chiuso: «La discussione partirà nella maggioranza e sarà poi aperta alle altre forze politiche».

Lo scudo di palazzo Chigi
È lo schema dei cerchi concentrici, dove quello interno stretto attorno al tavolo di palazzo Chigi dovrebbe risultare più protetto. Vale due volte sulla legge elettorale, l’altro argomento al centro delle intenzioni di Letta, come pure delle raccomandazioni di Napolitano a Renzi. Volato al funerale di Mandela con in testa il compromesso da raggiungere tra le ambizioni di Renzi e le paure di Alfano, Letta informa l’aula che anche per la nuova legge elettorale si cercherà prima l’intesa nel governo e nella maggioranza. Nel merito la formula è sufficientemente vaga per non sgradire né a destra né a sinistra: «Ci orienteremo verso meccanismi maggioritari». Ma tra il doppio turno di coalizione al quale può rassegnarsi Alfano e il Mattarellum che può minacciare Renzi, cercando intese fuori dal recinto della maggioranza, c’è l’abisso. Letta non se ne dimentica certo, e per questo cerca di ostacolare i propositi del sindaco di Firenze alzando un muro attorno al suo centro-destra-sinistra. Attacca così a testa bassa il Movimento 5 Stelle, gli argomenti non gli mancano e casca anche bene: l’interesse alla rissa è reciproco e la rissa puntualmente arriva.
La preoccupazione di difendere la maggioranza è tale che, in una replica, il presidente del Consiglio ammette di sentire la responsabilità «personale» della «faticosa» scelta di Alfano. Giura che la scissione del Pdl è un fatto storico, addirittura «l’avvenimento politico principale degli ultimi 20 anni», malgrado possa concludersi con un ritorno a casa. La gratitudine non spiega tutto: se Letta si sacrifica per Alfano, cercando disperatamente di tirarlo su come presentabile avversario, è perché il successo del suo strano governo è l’unica carta che può giocare nella sfida a Renzi. Il quale, però, è già pronto a intascarsi ogni minimo ed eventuale successo del «suo» presidente del Consiglio: «Loro parlano di riforme da 30 anni, noi semplicemente le faremo».