«Eeeevvviva la torre di Pisa, che pende, che pende, che mai non vien giù!». Una vetero filastrocca per rappresentare il comune sentire degli italiani? Tutto va male, tutto pende, ma la torre non verrà giù. Fino ad oggi non è venuta giù, dunque speriamo che non succeda. Corriamo il rischio, dove correre in realtà vuol dire stare quasi fermi.
Su questa idea degli italiani sull’orlo di un abisso, sempre a rischio di, è costruito Sacrés Italiens!, (Armand Colin, pp. 220) di Alberto Toscano, giornalista italiano residente a Parigi, già presidente dell’Associazione stampa straniera. Il titolo riprende, ma con la maggiore benevolenza della lingua francese, il Maledetti Toscani di Curzio Malaparte senza averne, nemmeno lontanamente, il gusto baroccheggiante. Senza il vittimismo né l’invettiva, così in voga oggi.
Alberto Toscano sa il fatto suo, sa che la somma di 60 milioni di italiani non fa gli italiani, sa che gli italiani per primi sono presi dal panico se devono rispondere alla domanda su chi sono. Per questa ragione si affida spesso alla macchina da presa. Quando deve spiegare al frastornato pubblico francese un tratto particolare degli italiani proietta, se così si può dire, sulla pagina qualche scena della cinematografia casalinga e tutto, grazie a Totò o a Fellini, sembra rendersi più comprensibile. Lo fa con una scrittura chiara, la clarté francese al lavoro?, e scanzonata. Non disdegna le grandi sintesi storiche, ma non trascura l’aneddoto chiarificatore. Risale a Dante ma si confronta con Berlusconi e Grillo. Cita un pensiero intenso di Umberto Saba – «Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto, in tutta la sua storia una sola vera rivoluzione? La risposta è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi» -, e subito dopo riporta un commento di Luciana Littizzetto.
Questo modo di procedere ha i suoi rischi, che vengono sapientemente superati quando il tema si fa ingrato, come nel capitolo «La mano nera della Mafia», o eccitante, come nelle pagine dedicate alla creatività. La creatività degli italiani è figlia della loro capacità di sognare: il primo sognatore narrato con passione è Adriano Olivetti. Lui voleva l’apertura, dove la Fiat degli Agnelli/Valletta/Romiti voleva solo l’ordine, sintetizza efficacemente Toscano. Marchionne lasciamolo da parte. È su questa doppia faccia che scorre tutta l’impresa del libro: spiegare ai francesi e, sotto sotto, agli italiani stessi, la perenne coabitazione di bellezza e volgarità, di splendore e decadenza, di speranza e cinismo. Di compresenza di fessi, che hanno princìpi e di furbi, che hanno solo fini, come suggeriva Prezzolini. Districarsi in questa contraddizione dell’antropologia italica non è facile. Ci aveva già provato duecento cinquant’anni fa Giuseppe Baretti con il suo Account of the manners and customs of Italy, senza grande successo. La scappatoia sarebbe quella di inventariarli uno per uno gli italiani e le italiane, in una grande cloud di big data da consultarsi all’occorrenza. Non potendolo fare, Toscano si dedica ad altri elenchi: spaghetti e maccheroni, linguine e rigatoni, penne e lumaconi, lasagne e cannelloni, conchiglie e pappardelle, pipe e tagliatelle, fettuccine e rotelle, ziti e tortellini, bavette e bucatini, maltagliati e chifferini, farfalle e spaghettini, garganelli e vermicelli, paccheri e agnolotti, trenette e pansotti. Sta parlando della pasta, quella di cui sono fatti gli italiani, raggruppati per consorterie, famiglie, appartenenze, fazioni, clan, partiti, parentele, parrocchie e parrocchiette. Le uniche vere «nazioni» riconosciute dagli italiani. «Intendomi chi può che m’intend’io» direbbe Girolamo Frescobaldi, grande musicista italiano.
La mia proposta è: tradurlo presto, portarlo nelle scuole, proporre agli studenti di correggerlo, integrarlo e vedere che racconto di sé viene fuori. Il titolo: «Benedetti italiani!».