Gdynia sì, Gdynia no. Alla fine il principale festival del cinema polacco si terrà anche quest’anno dal 9 al 14 novembre sulla costa baltica nonostante la pandemia. La rassegna è destinata a svolgersi in una forma «ibrida» con proiezioni per gli addetti ai lavori ma senza il pubblico. Coi tempi che corrono è una decisione organizzativa che non desta scalpore, soprattutto se confrontata con quello che è accaduto nel 2019 con il «caso Zulawski».

A settembre scorso Xawery ha provato a portare in concorso Bird talk basato su un copione rimasto a lungo nel cassetto del padre Andrzej, autore di culto a partire degli anni Settanta di un «cinema sofferto e crudele, a priori contro tutto e tutti» realizzato tra Varsavia e Parigi. In un primo momento il comitato organizzativo, di cui fanno parte anche il vice-ministro della cultura e altri dirigenti nominati dal governo, avevano escluso il film dalla competizione nonostante fosse stato scelto dai selezionatori della rassegna. Una «decisione politica» che aveva fatto insorgere numerosi esponenti del cinema polacco pronti a boicottare la manifestazione. Alla fine il comitato ha ceduto alla pressione reinserendo il film in concorso in extremis insieme ad altri tre titoli. Abbiamo parlato di questo e di tanto altro con un cineasta caparbio quanto il padre, capace di raccontare con una sensibilità sorrentiniana il lato volgare della società del proprio paese. Va da sé che Xawery sembra aver ereditato un certo gusto per gli adattamenti difficili sul grande schermo dal proprio papà.

Cosa è successo davvero a Gdynia l’anno scorso quando «Bird Talk» è stato inserito in concorso all’ultimo momento?
Per alcuni esiste un solo modo accettabile di essere polacchi. La sceneggiatura scritta da mio padre è come una rivendicazione libertaria che cozza con la mentalità dei funzionari di destra e la loro visione di società. E da queste considerazioni che era partito il tentativo di mettere da parte un tipo di cinema in via d’estinzione e difficilmente inquadrabile come lo sono in generale i film di mio padre.

Aveva sentito parlare di questo progetto prima che suo padre decidesse di affidarglielo?
No, non ne avevo sapevo nulla anche se negli ultimi 20 anni della sua vita papà ha vissuto in Polonia dopo essere rientrato dalla Francia (Andrzej Zulawski è scomparso nel 2016, ndr). Mi ha detto che potevo fare quello che volevo con questo copione che mi ha consegnato qualche giorno prima della sua morte. «Non leggerlo nemmeno se non ne hai voglia», ha aggiunto. Anche se in cuor suo sperava che io mi occupassi di questo progetto di certo non era sua intenzione darmi indicazioni su come realizzarlo. D’altro canto mio padre non ha mai fatto pressioni sui figli affinché diventassero qualcuno.

Tomasz Raczek ha definito questo progetto come il testamento artistico di suo padre. In che cosa il personaggio interpretato da Daniel Olbrychski è diverso da lui?
In effetti il personaggio interpretato da Olbrychski è basato anche sulla figura di mio nonno (Miroslaw Zulawski era stato diplomatico e poeta, ndr). Papà ha mescolato moltissimo le carte. La sceneggiatura contiene pochissime didascalie ed è un groviglio di realtà e finzione. Difficile parlare di testamento in questo caso visto che il film non ha un carattere prettamente autobiografico. E un film in cui mi sono trovato a interpretare a modo mio la visione che mio padre aveva dei suoi fratelli e di mio nonno. Trovandomi di fronte ad un testo aperto mi sono sentito a mio agio nel fare a modo mio nel finale con una danza conclusiva che suona anche come un omaggio pop del cast al cineasta Andrzej Zulawski.

Se dovesse indicare un titolo tra le pellicole realizzate da suo padre quale sceglierebbe? Glielo chiedo soltanto per conoscere meglio i suoi gusti e la sua visione del cinema.
Difficile essere obiettivo. I ricordi legati alla lavorazione dei film realizzati in Francia da mio padre mi hanno accompagnato durante tutta la mia gioventù. Sono pellicole che parlano della sua lunga relazione con Sophie Marceau. Posso dire di conoscerli da un punto di vista personale. Nei film realizzati in Polonia invece a recitare c’era spesso mia madre (Malgorzata Braunek, ndr). Durante la realizzazione di Bird Talk guardavo spesso Amour braque – Amore balordo (1985). Anche se non ero in moviola con mio padre nella sala accanto c’ero anch’io a numerare i fotogrammi del materiale da lui girato per La nota blu (1991). Ancora oggi mi commuovo quando lo guardo. Delle opere realizzate in Polonia dico Sul globo d’argento (1988), basato su un romanzo di fantascienza di Jerzy Zulawski che era il prozio di mio padre. Dovevo avere otto-dieci anni al massimo allora. Mi ricordo le esplosioni sulla spiaggia e poi la lavorazione aggiuntiva alla fine degli anni ottanta quando papà tornava di tanto in tanto a Varsavia per completare il film. L’ho visto per la prima volta in una proiezione a Parigi ma non sembrava dirmi molto. Poi di nuovo una decina di anni fa a Berlino quando la versione restaurata della pellicola è stata presentata insieme al mio secondo lungometraggio Snow White and Russian Red (2009). Allora è stato come una rivelazione per me. E come se il pieno apprezzamento del film fosse il risultato della maturazione della mia persona, dei miei gusti, di quelli del pubblico ma anche dell’opera stessa che ha avuto una lavorazione molto travagliata (buona parte delle riprese sono state girate nel 1976, ndr).

Secondo lei perché Andrzej Duda del partito di destra Diritto e giustiza (Pis) ha vinto le elezioni presidenziali?
Io mi concentrerei sul risultato significativo del sindaco di Varsavia Rafal Trzaskowski che è stato preferito a Duda da almeno 10 milioni di polacchi (Duda ha sconfitto Trzaskowski al ballottaggio lo scorso 12 luglio con uno scarto di circa 500.000 voti, ndr). Il Pis continua a beneficiare della narrazione filogovernativa dalla televisione pubblica polacca Tvp che è servita ancora una volta a convincere migliaia di polacchi che non hanno accesso ad altre fonti d’informazione a votare per Duda.

Il protagonista di «Snow White and Russian Red», Silny, interpretato in modo memorabile da Borys Szyc, è un esponente della sottocultura dei «dresiarzy». Si tratta di una variante tutta locale degli hooligans delle periferie polacche che indossano tute sportive e di solito votano a destra. E grazie ai loro voti che Duda è riuscito a mantenere il potere?
Il Pis ha trionfato tra i cittadini di sessant’anni che non sono abituati a interpretare le notizie. Gli over 60 in Polonia di solito vanno a messa e si bevono quello che TVP gli dà e senza fare troppe storie. E una generazione abituata al partito unico essendo nata e cresciuta in Polonia durante il comunismo. Non hanno paura del monopartitismo, anzi. Per loro il punto di vista unico, dominante, tradizionalista offerto dal Pis è la cosa più rassicurante che ci possa essere. È trascorso quasi un decennio dall’uscita di questa pellicola che ha ottenuto un grande successo di critica in patria. Secondo lei la Polonia di oggi è più volgare e divisa di quella di allora? In parte è così. Lo vediamo nelle divisioni che attraversano le famiglie separate da posizioni politiche spesso opposte o comunque difficilmente conciliabili tra loro. Un’altra volta come paese abbiamo lasciato che i politici ci dividessero. Ma stiamo arrivando a un punto di non ritorno. Prima o poi – e speriamo che questo accada il prima possibile – ci renderemo conto ancora una volta come società che la solidarietà tra le persone è più importante di qualunque divisione.