I lettori del manifesto sanno già molto di quanto è accaduto a Sesto Fiorentino, da un anno a questa parte, fino al risultato clamoroso delle elezioni di domenica scorsa.

Ricordiamolo: i due candidati sindaco espressione delle varie forze della sinistra hanno ottenuto al primo turno, rispettivamente, il 19% e il 27%: e uno dei due, il candidato espresso da Sinistra italiana, ha trionfato al ballottaggio con il 65,5% dei voti, contro il candidato del Pd (al primo turno fermo al 32%, avendo perso circa 25 punti percentuali in due anni).

Ovviamente contano molto le specificità locali ma dal «caso Sesto» è possibile trarre qualche insegnamento più ampio. E questo vale tanto per il Pd quanto per il difficile progetto di Sinistra Italiana.

Cominciamo dal Pd. La sconfitta dem è evidente, non lo sono ancora le possibili risposte e conseguenze. Si tratta ora di capire come Renzi pensi di reagire.

Una lettura cui sembrano propensi vari commentatori sostiene pressappoco questo: Renzi è un grande innovatore ma ha «trascurato» il partito… E lo stesso Renzi sembra convinto di questo, quando proclama «Sono deluso: ora del partito me ne occupo io», minacciando …fuoco e fiamme e l’invio di speciali angeli vendicatori, quei «commissari» ai quali si dovrebbe affidare il compito di «ripulire» il partito..

Ma cosa vuol dire «occuparsi del partito»? Se significa collocare dei propri fedelissimi nei posti-chiave, beh… non è vero che Renzi non se ne sia occupato, anzi è vero l’opposto. Il «caso Sesto», ad esempio, nasce proprio in questo modo.

In fondo, Renzi aveva già «commissariato» Sesto: l’invio di una candidata-sindaco, dapprima eletta nel 2014 e poi sfiduciata, rispondeva a una siffatta logica di liquidazione dei vecchi quadri dirigenti e di normalizzazione programmatica: operazione che, per di più, rivelava una mancanza di rispetto nei confronti della tradizione politica locale, e un surplus di arroganza che è stato rigettato dagli elettori. Renzi è prigioniero della sua ideologia «decisionista» e accentratrice: ma avere un partito degno di questo nome mal si concilia con questa logica. Che Renzi, su queste premesse, possa cambiare il partito è del tutto illusorio: non ne ha nemmeno gli strumenti culturali, gli mancano le pre-condizioni perché possa anche solo immaginare un’idea di partito diversa da quella che ha praticato nei fatti in questi anni.

Il Pd potrebbe, forse, cambiare solo se Renzi viene apertamente sconfitto: e anche per questo il referendum di ottobre si presenta come uno spartiacque. Si pone qui un dilemma strategico cruciale per le attuali minoranze del Pd: proprio coloro che si pongono l’obiettivo di «salvare» il Pd e intendono scongiurare una scissione, non possono che battersi apertamente per il No.

È l’ultima occasione per riaprire i giochi nel partito: altrimenti gli spazi si chiuderanno definitivamente, e – paradossalmente – proprio la scelta di una scissione a quel punto sembrerà inevitabile. È davvero illusorio che possa essere il «congresso» il luogo in cui poter dare un colpo definitivo a Renzi. Insomma, delle due l’una: coloro che continuano a escludere la scelta della scissione, dovrebbero quanto meno mettere nel conto un duro scontro sul referendum (e sulla legge elettorale). Altrimenti per loro si prospetta solo un futuro di irrilevanza e marginalità.

Questo dilemma ha molto a che fare con la situazione di Sinistra Italiana. Il suo risultato generalmente deludente nasce, innanzi tutto, dall’assenza di un chiaro disegno politico e strategico e dalla conseguente, mancata percezione della possibile novità che questo (potenziale) nuovo partito può rappresentare nel panorama politico italiano. Le liste e i candidati della sinistra non sono riusciti ad essere percepiti come una proposta che andava oltre i tradizionali confini delle forze della «sinistra radicale». Ma vi sono anche cause specifiche che sono messe in luce, per contrasto, proprio dal caso di Sesto Fiorentino.

Il risultato toscano non nasce da operazioni elettorali estemporanee: è stato possibile perché c’è stata una rottura significativa nel Pd (la maggioranza del vecchio gruppo consiliare), costruita politicamente, preceduta da una battaglia interna, accompagnata e seguita da vivaci movimenti di lotta e di opinione su rilevanti questioni politiche locali e regionali. Ed è il frutto di un lavoro di lunga lena: anche il successo dell’altro candidato, dirigente locale del Pci negli anni Ottanta, si era già registrato alle scorse elezioni del 2014, quando aveva raccolto il 18%, con una coalizione che allora comprendeva anche Sel.

L’entità della rottura nel Pd, insomma, è stata tale da imporsi, agli occhi degli elettori, come un fatto politico di rilievo, non come un’operazione minoritaria. Del resto, gli elettori scelgono anche sulla base della percezione che hanno dell’«utilità» del loro voto: e sono molti gli elettori che sentono come uno spreco il voto a liste destinate a restare marginali (e da qui, anche, il successo dell’opzione M5S, percepito oggi come l’unica vera alternativa, anche da molti elettori di sinistra).

Quel dilemma strategico sopra riferito alle minoranze del Pd si ripropone in forme diverse anche per Si: da una parte, solo se la rottura nel Pd è forte, ampia e visibile, e costruita politicamente, la costruzione di una nuova forza politica a sinistra potrà superare quella soglia critica necessaria a imporsi come un nuovo soggetto politico credibile. D’altra parte, anche coloro a cui premono le sorti della sinistra penso abbiano innanzi tutto a cuore la vittoria al referendum (che avrebbe però come effetto collaterale l’allontanarsi dall’orizzonte di una scissione del PD).

Come uscirne? Il dibattito politico che si aprirà in vista del congresso di Si dovrà tener conto di questi scenari «mobili», che solo dopo il referendum potranno essere chiariti. E quindi la proposta e la collocazione strategica di Si deve essere, in questa fase, costruita tenendo conto dei diversi possibili esiti.

Un voto come quello di Sesto può essere utilmente messo a confronto con il risultato di Cagliari: da una parte, uno scontro frontale (e vincente) con il Pd, dall’altra un risultato che mostra come sia possibile svolgere un ruolo unitario e, nello stesso tempo, autonomo e non subalterno nel rapporto con il Pd.

Come tenere insieme questi dati? Affermare enfaticamente «mai col Pd» fa scattare spesso l’applauso, ma non sposta consensi reali e non risolve i problemi. Ma ha poco senso, e non porta molto lontano dividersi tra «unitari» e «oltranzisti». Il compito primario dei prossimi mesi è quello di definire l’identità politico-culturale del nuovo partito, unica base possibile di una reale autonomia.

Solo chi è autonomo non ha paura di «contaminarsi» né di cercare mediazioni possibili su basi programmatiche. O di andare allo scontro duro, quando è necessario. La mia opinione è che, quale che siano gli scenari post-referendum, occorre sempre tenere aperta la via del dialogo con il Pd, non perché possa dare frutti nell’immediato ma perché solo con un atteggiamento non chiuso e non settario si apre la possibilità di un dialogo con gli elettori di questo partito e con gli elettori che lo hanno abbandonato, ma rifugiandosi nell’astensione o nel voto al M5S.

Cosa vuol dire concretamente «dialogo con il Pd»? Proviamo a immaginare una conferenza stampa, tra pochi mesi, in cui il nuovo segretario di Si risponde all’inevitabile domanda sui rapporti con il Pd. Cosa potrebbe rispondere?

Una risposta potrebbe essere: «Cari signori, il nostro partito è duramente e ferocemente critico con le politiche che il governo Renzi ha condotto fin qui e con le idee che il Pd mostra di avere; e del resto i suoi risultati fallimentari sono sotto gli occhi di tutti. Noi siamo nati per ridare voce agli ideali della sinistra e per dare voce a un mondo del lavoro, dei lavori vecchi e nuovi, e dei senza-lavoro, che oggi sono privi di una rappresentanza politica. Stiamo già raccogliendo il contributo di tanti cittadini di sinistra che non hanno avuto più in questi anni un punto di riferimento, e anche quello di tanti iscritti ed elettori del Pd che non si riconoscono più nella piega centrista e trasformista di questo partito; e siamo aperti al contributo di quanti vorranno unirsi con noi in questo progetto. Nello stesso tempo, guardiamo sempre con attenzione a cosa accade nel Pd: abbiamo le nostre idee, le vogliamo confrontare con tutti, e vorremmo che il Pd tornasse ad essere un vero partito di centro-sinistra, che guardasse con rispetto ai possibili interlocutori alla sua sinistra, e che si rendesse conto che la “terra bruciata” attorno a sé non è una strategia che porti qualcosa di buono e di positivo, per nessuno. Siamo una forza alternativa e autonoma, radicale e critica, ma siamo anche interessati al dialogo con tutti coloro che sono disposti a lavorare in una prospettiva democratica e di vero rinnovamento».

Certo, è solo uno dei possibili discorsi (quello che, a nostro parere, esprime la maggiore forza egemonica ed espansiva): ma il dibattito è aperto, ovviamente. Quali altri discorsi potrebbe fare il nostro ipotetico personaggio?