«Prendo atto che Alfano va alla Camera: dopodiché, la vicenda riguarda il presidente del Consiglio, sia lui a valutare quello che è accaduto. Immagino andrà in aula egli stesso e dovrà prendere posizione sulla vicenda, dovrà dire se le considerazioni di Alfano lo avranno convinto o no. La questione in gioco è la credibilità di un paese». A dire così non un era un capogruppo turnista dei 5 stelle, non Gennaro Migliore oggi nel Pd ma all’epoca – siamo nel luglio 2013 – presidente dei deputati di Sel, partito che con i grillini – come oggi – aveva presentato una mozione di sfiducia contro il ministro Alfano per l’oscuro caso Ablyazov: con un blitz cinquanta poliziotti avevano prelevato Alma Shalabayeva, moglie del kazako Mukhtar Ablyazov, e sua figlia seienne, e nonostante lo status di rifugiate le avevano espulse dal’Italia. La vicenda aveva fatto il giro del mondo. Il ministro Alfano aveva detto al parlamento di «non essere stato informato».

No, a bombardare Palazzo Chigi e il suo inquilino Enrico Letta era proprio Matteo Renzi, il presidente del consiglio di oggi che dal nuovo pasticcio creato dal ministro dell’interno (lo stesso di ieri) ha cercato di tenersi alla larga, tenendosi però il ministro al pari del suo predecessore. E così si capisce meglio cosa vuol dire il premier-segretario quando spiega che il suo Pd dev’essere «la sinistra delle opportunità»: c’è opportunità e opportunità, infatti. Nel luglio 2013 l’opportunità era quella di tirare giù Letta, nel novembre 2014 l’opportunità è quella di mantenere su il governo, non urtare l’Ndc – partito nato proprio per mantenere in piedi il governo delle intese – e quindi trasformare il tranquillo ma pasticcione Angelino nel vero untouchable sé nonostante. Anche i rapporti fra i due in un anno sono cambiati parecchio. Oggi per Renzi l’Ndc è più che l’alleato di governo cui concedere lo scalpo dell’art.18; più che il promesso sposo alle regioni, rompendo le secolari per lo più vittoriose coalizione di sinistra. È molto di più, come spiega a Claudio Cerasa sul Foglio Francesco Boccia, ex lettiano ma elettore di Renzi e oggi di nuovo suo avversario interno: «Lo dico con cognizione di causa, avendo in casa una moglie di destra (Nunzia De Girolamo, Ncd), oggi non faticherei a dire che le politiche di Matteo (Renzi, ndr), per come sono concepite, sono in sintonia più con il partito di mia moglie che con il partito di cui faccio parte».

E dire che i due, Renzi e Alfano, all’epoca, non si amavano affatto. L’uno scaldava i motori per l’irresistibile ascesa a Palazzo Chigi scalo Nazareno; l’altro miglior alleato di Letta, fresco di scissione dal Pdl per il superiore bene della permanenza del (e al) governo. Se lo ricorda bene Bruno Vespa quando, a dicembre, li aveva invitati a presentare il suo libro annata 2013 (quello 2014, per la cronaca, si intitola appropriatamente «Italiani voltagabbana»). Il ministro e il sindaco quasi non si guardarono in faccia. E se il primo diceva «bisogna smontare la legge Fornero» il secondo rispondeva piccato «lo dici a me? Sei tu che l’hai votata». Altro giro: «Cancelliamo subito il finanziamento pubblico ai partiti», risposta: «Fino a ieri stavi con uno che ti pagava a piè di lista le spese del partito».

Passato un anno, sembra un secolo. E il caso Shalabayeva «era tutto diverso», spiegano tutti nel Pd (tranne Pippo Civati) dai manganelli contro gli operai di Terni. Che Alfano abbia mentito al parlamento, o che fosse molto mal informato, ieri era una certezza e invece oggi è un dubbio resistente agli eloquenti filmati mandati in onda da Gazebo su Raitre. Ai quali il ministro ieri in aula ha opposto «altri particolari non secondari venuti alla luce grazie al contributo di semplici cittadini con i loro smartphone e video su youreporter e youtube». Come dire: ogni telecamera e ogni iPhone ha i suoi occhiali ideologici, e la realtà dei manganelli esplode in mille frammenti pirandelliani.

Sarà per questo che all’epoca i renziani, oggi soddisfatti della versione del ministro, all’epoca gli avevano organizzato un mezzo tumulto popolare. Tredici senatori avevano chiesto al Pd di pretendere anzi imporre le dimissioni del ministro perché «la sua posizione è oggettivamente indifendibile». Il combattivo Roberto Giachetti così ragionava: «Il tema se sia necessario che un ministro si assuma la propria responsabilità e si dimetta, se non ha detto la verità in parlamento, riguarda tutti. Non è che se uno solleva il problema è perché deve ammazzare il governo». Sì, perché all’epoca l’attivismo antialfaniano di Renzi destava sospetti. «Dicono che tutta questa vicenda nasca dalla mia ansia di far cadere il governo. Ma la realtà dei fatti è che io non ho alcun interesse a far saltare il governo Letta», postava su facebook il sindaco. Il seguito è storia nota.

Non che Renzi sia stato l’unico a cambiare opinione sulla responsabilità del ministro che oggi come allora si dichiara irresponsabile cioè non responsabile di quello che accade al Viminale e nelle questure che pure governa. Per le dimissioni si schierarono Gozi (oggi sottosegretario, all’epoca «se ne vada»), Gianni Cuperlo (attuale leader di SinistraDem, oggi ha fatto un’interrogazione sulle manganellate), Matteo Orfini (all’epoca dimissionista, oggi da presidente del partito dice: «La mozione di sfiducia è una cretinata, non si può ritenere il ministro direttamente responsabile. Ma deve individuare e rimuovere i responsabili»). Cambio di verso anche nell’altra sinistra: la pattuglia dei fuoriusci di Sel, agguerrita all’epoca Shalabayeva, anche stavolta esprime un voto convinto. Però opposto: ora «il ricorso alla sfiducia individuale non è opportuno, bisogna individuare i responsabili della piazza», spiega il capofila Gennaro Migliore: «E comunque rispetto l’orientamento del mio gruppo».