L’appello di Conte ad estendere l’alleanza di governo in tutte le regioni è rimasto inascoltato.

Tanto Conte quanto Zingaretti e Di Maio dovrebbero chiedersi il perché e trasformare questo dato di fatto in un’occasione di riflessione e cambiamento. Non che fosse, in generale, insensato.

Non lo sarebbe stato, per esempio, se non ci fosse stata prima l’Umbria; non lo sarebbe stato se la compagine di governo – al di là di apprezzabili risultati – fosse riuscita ad avere un qualche respiro strategico (cosa che, fino a questo momento, non mi pare si possa dire).

Ma nella situazione effettiva, per esempio nelle Marche e in Campania, era del tutto prevedibile e giusto che le vicende territoriali – la storia concreta di quelle realtà e il carattere di quei ceti di governo – diventassero prevalenti, rispetto ad uno schema romano.

Nelle Marche, ad esempio, sia il Movimento 5 Stelle, sia il movimento “Dipende da noi” (espressione di diversi pezzi della società civile, chiaramente a sinistra, senza alcuna vocazione minoritaria, nato intorno al filosofo Roberto Mancini) avevano chiesto una netta discontinuità nelle figure e nei contenuti (dalla sanità alla gestione post sismica, alle politiche ambientali), non escludendo, a priori, una convergenza. La risposta del PD è stata di sostanziale e autolesionistica continuità.

E questa continuità, questa presunzione di autosufficienza, questa chiusura in una logica di potere, è molto più forte in alcuni territori, rispetto ai (pur timidi) vagiti di rinnovamento che, a tratti, si alzano a Roma.

Perché ciò che si è diventati, il peso di certi meccanismi di consenso, di certi legami lobbistici, può essere scosso solo da un drastico spostamento dell’asse politico, da una riflessione profonda e democratica, realmente aperta a ciò che – nella politica e nella società – nonostante tutto continua a muoversi.

Se non c’è questo cambiamento profondo, esplicito, partecipato, se si rifinanziano le missioni in Libia, se si continua a non fare lo jus soli, se non si assume come priorità vera la precarietà di due generazioni e i diritti dei lavoratori, se non si ha il coraggio di operare una severa redistribuzione della ricchezza, hai voglia, poi, a pensare di fermare la destra con le geometrie politiciste o con appelli elettorali all’antifascismo.

Quest’ultimo va ricostruito come egemonia culturale, nei singoli e nella società; e pretende una coerenza, un rigore nel rappresentare i ceti e gli individui più deboli, il bene comune. Se privatizzi la sanità, se lasci le macerie per quattro anni, se chiami Bertolaso nelle Marche dopo il disastro della Lombardia, se, in alcune realtà, sei contiguo o subalterno ad interessi poco trasparenti, non fermi la destra urlando “aiuto, arriva la destra!”, o, meno ancora, con accordi politicisti.

Di coraggio e di visione storica ci sarà bisogno dopo il 21 settembre, perché il morto non afferri il vivo. Il governo non sarà travolto dal bilancino delle regioni; rischia di essere travolto dalla mancanza di un salto di qualità, di uno spostamento a sinistra e di una spinta partecipativa.
Che è responsabilità, ovvia e preminente, dei due partiti maggiori.

Trasformare una precaria esperienza di governo in una stagione nuova della democrazia, lo abbiamo auspicato in molti un anno fa; non è accaduto, non so se sia possibile, certo è indispensabile.

Non si strilli contro chi non si adegua alle geometrie, perché né la sinistra, né la democrazia, sono luoghi geometrici, ma politiche concrete e campi etici. Si strilli contro chi – a Roma, nelle regioni, nelle città – trasforma la politica in un mercato del consenso e in un maggiordomo degli interessi privati, che è il vero e reiterato regalo alla destra.