Come si fa a sfiduciare il sottosegretario all’economia Claudio Durigon, capo della Lega nel Lazio e autore della proposta di riportare il parco pubblico di Latina alla vecchia e ufficiosa denominazione di parco Arnaldo Mussolini (rinunciando alla dedica a Falcone e Borsellino) con la motivazione che «le radici della città non devono essere cancellate»? A chiedere le sue dimissioni sono ormai in molti, dopo che quattro giorni fa aveva cominciato il Pd regionale (la frase dello scandalo Durigon l’ha pronunciata la sera del 4 agosto, introducendo a Latina un comizio di Salvini). Anche Enrico Letta pensa che «le affermazioni di Durigon sono incompatibili con la sua presenza al governo, deve fare un passo indietro e faremo il possibile perché questo avvenga», anche Giuseppe Conte dice che «Durigon si batta pure per questo suo progetto ma dismettendo immediatamente l’incarico di sottosegretario di stato», anche Fornaro di Leu e Fratoianni di Sinistra italiana lo ripetono, anche un componente del governo, il ministro Patuanelli (M5S), crede che «sia necessario un passo indietro, mi auguro che non si arrivi alla mozione di sfiducia». Mozione che già il deputato di Forza Italia Elio Vito dà per sicura e annuncia: «Voterò a favore perché l’antifascismo è un valore fondamentale».

La mozione – quella già agli atti e di cui si discute, le camere sono chiuse – non parla però di fascismo e antifascismo essendo stata presentata il 4 maggio scorso dagli ex 5 Stelle, ora all’opposizione, di Alternativa c’è. Due giorni dopo il gruppo 5 Stelle ne ha presentata un’altra sostanzialmente identica, entrambe ispirate dal precedente «incidente» nel quale era incappato Durigon. Si tratta della conversazione svelata da Fanpage nella quale il leghista assicurava che la Lega non ha nulla da temere dalla famosa inchiesta sui 49 milioni perché il generale della Guardia di Finanza che sta facendo le indagini «ce l’abbiamo messo noi». Su questo la componente di Alternativa c’è ha anche chiamato il presidente del Consiglio a rispondere in aula (il 12 maggio alla camera) ma Draghi ha risposto solo che nessun generale delle Fiamme Gialle «ha svolto ruoli direttivi nelle investigazioni».

Risposta evasiva per un fatto tanto grave (anche se fosse solo millanteria, che la Guardia di Finanza dipende direttamente dal ministero dove siede Durigon) che prova quanto sia ingombrante il sottosegretario leghista. Salvini infatti non può in alcun modo permettersi di non difenderlo, visto che le fortune della sua Lega nel Lazio dipendono in buona parte dalla dote portata da Durigon: il sostegno elettorale e materiale del sindacato di destra Ugl, di cui il sottosegretario è stato vicesegretario nazionale. Nei piani del capo leghista, anzi, Durigon dovrebbe essere il candidato di tutto il centrodestra alle regionali nel Lazio del 2023. Soprattutto dopo la spartizione con Fratelli d’Italia che ha ottenuto la candidatura di Michetti a Roma. Durigon oggi è uno degli uomini più importanti nella Lega di Salvini e se dovesse cadere lui il contraccolpo per il partito e per il suo leader sarebbe pesantissimo.

Un bel pasticcio, tutto sulle spalle di Draghi. Mettendo insieme i gruppi che si sono espressi per la sfiducia, infatti, Durigon sarebbe molto probabilmente condannato nell’aula della camera. Ma Il parlamento non può sfiduciare un sottosegretario (che non è legato alle camere, come il governo, dal rapporto di fiducia) può solo chiedere al presidente del Consiglio di intervenire, così fanno le mozioni già presentate. E così è stato in tutti i precedenti, da quello del ’93 che ha riguardato il sottosegretario Pappalardo nel governo Ciampi ai casi Giorgianni, Cusumano, Sgarbi, Cosentino, Caliendo fino al più recente che ha riguardato sempre la Lega, quello di Siri nel primo governo Conte (quando il Pd nella sua mozione, non discussa, non citò neanche il nome del sottosegretario proprio per presentare una sfiducia effettiva a tutto l’esecutivo).

Solo una volta la mozione «di indirizzo alla sfiducia» è arrivata al voto e in quel caso (Caliendo, 2010) è stata bocciata. Tutte le altre volte il sottosegretario in questione si è dimesso prima, oppure è stato dimesso con un decreto del presidente della Repubblica adottato dal capo del governo di concerto con il ministro competente e «sentito» (non occorre votazione) il Consiglio dei ministri. La strada dunque è solo questa e Draghi può trovarla nel testo del decreto con cui Conte ha liquidato Siri: la richiesta ufficiale di dimissioni, il diniego dell’interessato, il rapporto di fiducia che per questo si spezza e la revoca della nomina.