La politica turca di Angela Merkel. Dalla «porta aperta» ai profughi, incardinata sul muro degli hotspot di Erdogan, fino a «l’islam appartiene alla Germania» ma soltanto se gli imam piacciono al sultano.

È la strategia bizantina della cancelliera, che incassa il crollo dell’arrivo dei migranti – da 3.300 a 180 al giorno in sei mesi – mentre cede alla Turchia il controllo delle moschee tedesche.

È l’altro patto fra Berlino e Ankara: il lato B dell’accordo sui migranti finanziato con i sei miliardi Ue anche dell’Italia. Uno scambio bilaterale per niente ufficiale, misurabile con il numero delle sale di preghiera «embedeed», quanto dai rumors della concorrenza di fede wahabita. Il primo riporta oltre 900 moschee affidate ai 970 «funzionari» rigorosamente certificati dal Diyanet, il dipartimento affari religiosi della Turchia controllato dal partito di Erdogan: a loro, da Colonia a Dresda, da Amburgo a Monaco è affidata l’interpretazione “ufficiale” del Corano. I secondi fanno sapere che Riyad è pronta a investire, come risposta, i milioni di dollari necessari alla costruzione di 200 nuove sale di preghiera in Germania.

Per la Bundesrepublik l’asse islamico con Erdogan va oltre l’emergenza migranti e ricalca l’accordo applicato ai «Gastarbeiter» turchi negli anni ‘60: libertà di professione, ma guida delle preghiere affidata ai religiosi formati e controllati dalla Repubblica kemalista.

Su questo versante punta il meno laico governo Erdogan che ha dotato il Diyanet di un budget astronomico (1,8 miliardi di euro, secondo Die Welt) consono all’investimento più politico che culturale, e triplicato rispetto al 2008.

Per lo stesso “appalto” la cancelliera Merkel resta nel mirino degli oppositori fuori e dentro la Grande Coalizione. Pesa più dell’abolizione del visto per la Turchia, del permesso di processare il comico Jan Böhmermann per lesa maestà, (entrambi contestati dal Spd) e preoccupa Mutti peggio delle intimidazioni come la testa di maiale appesa alla porta dell’ufficio della sua circoscrizione elettorale a Stralsund il 13 maggio scorso.

Ad alzare il tiro è il segretario generale Csu Andreas Franz Scheuer, invocando una «legge sull’islam» fotocopia di quella varata nel febbraio 2015 dall’Austria. «Tutti gli imam devono essere formati in Germania» riassume il politico bavarese. Mentre Cem Özdemir, presidente dei Verdi tedeschi, profondo conoscitore delle Realpolitik ottomana e tedesca, denuncia: «Il dipartimento affari religiosi non è altro che il braccio operativo del governo turco controllato dal partito Akp».

Una scelta obbligata per qualunque inquilino della cancelleria federale, spiega la statistica ufficiale che certifica l’origine turca del 63,2% dei musulmani presenti in Germania. Da 4 a 5 milioni di persone difficilmente censibili, cui si aggiungono le centinaia di migliaia di fedeli provenienti dall’Afghanistan, Bosnia, Siria insieme agli sciiti (7% del totale) emigrati a causa della guerra in Iraq e Siria.

Così, l’islam appartiene davvero alla Germania e ha come capitale Berlino (il quartiere di Kreuzberg è la maggiore città turca fuori dalla Turchia), anche se è da Colonia che si propaga il verbo del Diyanet. Fondata nel 1984 dalla presidenza degli affari religiosi di Ankara come «unione islamica», l’ente è un ombrello che riunisce centinaia di organizzazioni «per la pace e contro la violenza in nome dell’islam». L’organizzazione è la stessa che distribuisce in Germania il vademecum che sconsiglia alle donne di «viaggiare sole», derubrica il genocidio armeno a «eccesso di patriottismo» e impiega imam che – con buona pace delle competenze linguistiche richieste ai profughi – non parlano mezza parola di tedesco.

Per la pastora Ilse Junkermann, rappresentante della chiesa evangelica tedesca, l’integrazione passa per l’estensione della «tassa sul culto» anche alle moschee. E la destra xenofoba di Alternative für Deutschland pretende il divieto di costruire minareti, considerando «anticostituzionali» i musulmani tedeschi.

Un ginepraio politico per Merkel, leader dell’Europa laica e secolarizzata, e insieme un caso etico per la figlia del pastore protestante. Ma è solo un problema di assemblaggio degli elementi per «la ragazza dell’est», che sperimenta la fisica chimica fin ai tempi della Ddr.