Watergate, e il licenziamento del procuratore speciale Archibald Cox, sono stati citati molto nella tempesta mediatica cha ha seguito, e sta seguendo, il licenziamento del direttore dell’FBI James Comey da parte di Donald Trump. Liberarsi del responsabile delle indagini sul Watergate era stata una mossa boomerang per Nixon, un gesto che Congresso e opinione pubblica avevano interpretato come un abuso di potere motivato da un conflitto d’interessi quindi una minaccia alla democrazia.

L’allontanamento di Comey, impegnato nell’inchiesta sul Russiagate, e il cui alto profilo deve anche aver offeso l’ego ridicolamente fragile di Trump («un esibizionista», lo ha definito il presidente), è chiaramente il prodotto di un’equazione analoga, se non peggio, dato l’appoggio incondizionato del ministro della difesa, Jeff Sessions, alla Casa bianca. Da lì, molti commentatori hanno anticipato, nel gesto improvviso e iracondo di #45, l’incipit di un bis dello scandalo che, nel 1974, mise fine alla carriera del 37esimo presidente.
Il primo segnale che il terreno potrebbe essere molto meno fertile di allora lo ha dato il leader del senato Mitch McConnell, che ha difeso Trump e detto no all’istituzione di un procuratore speciale per il Russiagate. Chiaro, il diabolicamente cinico repubblicano del Kentucky ha concluso che il rischio politico per suo partito non è tale da far saltare un presidente che – meglio ancora se indebolito – garantisce l’avanzamento del suo micidiale programma legislativo.
L’altro segnale del cambiamento, e forse il più profondo, va cercato nell’opinione pubblica e nel ruolo di chi la forma. Il «Washington Post» e i media in senso lato, erano stati uno dei motori principali di Watergate.

Colti di sorpresa a novembre, dopo le elezioni, quegli stessi media – con particolare accento sui maggiori quotidiani e i siti di giornalismo investigativo – hanno investito più forze e denaro nel coverage presidenziale (il «NYTimes» ha nove giornalisti assegnati alla Casa bianca, il doppio che con Obama). Da quell’investimento, insieme al fluff, sono uscite inchieste determinanti: Michael Flynn sarebbe ancora il national security adviser senza il «WPost»; la Kushner Companies profitterebbe regolarmente della connection famigliare con la Casa bianca se il «NYTimes» non suonasse regolari campanelli d’allarme che hanno mandato in fumo parecchi deal.
Ma galvanizzare il paese intorno all’idea che Trump rappresenti (come Nixon a suo tempo) un rischio per la democrazia, o che un presidente eletto anche grazie alla promessa di abbattere le istituzioni, sia una minaccia inaccettabile per quelle istituzioni stesse è un’altra cosa.

Tra le istituzioni che Trump è più deciso a minare sono i media (solo ieri, furioso perché il coverage sul Russiagate continua, ha twittato la possibilità di cancellare i briefing quotidiani della Casa bianca). Lo aiuta il fatto che, secondo un sonaggio Gallup del febbraio scorso, la fiducia del pubblico nei confronti dei media è ai minimi storici, 32% (era 54% nel 2003). In dubbio, secondo un’inchiesta del Pew Research Center pubblicata il 10 maggio, anche il tradizionale ruolo dei media come watchdog: mentre l’89% dei democratici crede che le critiche da parte delle news organization impediscano ai leader politici di fare cose scorrette, solo il 42% dei repubblicani è d’accordo – una differenza del 47% , apertasi a partire dall’anno scorso. Watergate 2? Non cosi in fretta.

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