Tra i calciatori la cultura dello stupro sembra essere alquanto radicata. Il divismo nel quale vivono, implica che a loro tutto sia dovuto, a cominciare dalle donne. Le cronache si sono occupate più volte di calciatori, che dopo la conquista di una coppa festeggiano con donne, a volte quei «festini» si trasformano in stupri. In altri casi, sono i singoli calciatori ad essere accusati di stupro o tentativi di violenza sessuale, come nel caso di Cristiano Ronaldo quando giocava nel Real Madrid, accusato da una modella americana. Qualche settimana fa, Hudson-Odoi attaccante del Chelsea è stato arrestato con l’accusa di stupro.

Ched Evans, giovane promessa del calcio inglese, dopo le giovanili nel Manchester United, approda allo Sheffield. Nel 2012 è condannato a cinque anni di reclusione per aver stuprato una ragazza di 19 anni. Dopo due anni e mezzo di carcere, ottiene la cancellazione della pena, grazie anche alla mobilitazione dei tifosi attraverso i social media, che creano un clima particolare intorno alla vicenda giudiziaria. Il sociologo Pippo Russo, docente all’Università di Firenze, ha scritto un libro, Calcio e cultura dello stupro. Il caso Ched Evans (Meltemi), nel quale denuncia i torbidi legami tra il mondo dei calciatori, e più in generale dello sport, e la cultura dello stupro.

Il caso Ched Evans è il riflesso di una cultura dello stupro alquanto diffusa nel calcio?
Penso che il caso Ched Evans sia molto rappresentativo all’interno del calcio del modo di elaborare le relazioni di genere. È chiaro che non possiamo generalizzare, però è una mentalità molto diffusa tra i calciatori, che a torto o a ragione ritengono di essere i divi di oggi. L’aura di divismo può avere conseguenze sull’autopercezione dei calciatori come soggetti sociali e anche sulle relazioni che hanno nei confronti delle donne: si sentono di essere dei seduttori seriali, che nella relazione concedono un privilegio alle donne. La parte di grande desiderabilità sociale, che è stata costruita intorno a loro, ha ripercussioni nelle relazioni di genere. Questo è indice di una mentalità machista molto diffusa nel calcio, che oggettivamente fa da retroterra. Del resto è un mondo che nega la presenza dei calciatori omosessuali al suo interno.

Che cosa dovrebbero fare le società di calcio?
Nella formazione dei calciatori dovrebbe passare il principio, che «”no” vuol dire no». Nella cultura dello stupro il no di una donna è un sì, che va tirato fuori. Le relazioni di genere sono tra soggetti pari, non ci sono ruoli sociali che godono di speciali privilegi in termini di seduzione, compreso i calciatori. Occorre promuovere un processo di sensibilizzazione che non c’è non solo nel calcio, ma in tante altre discipline sportive. Le società di calcio si muovono solo quando vi è un danno all’immagine della squadra e perché dopo episodi di stupro c’è una perdita del valore del calciatore. Negli Stati Uniti sono numerosi i casi di violenza sessuale di cui sono protagonisti gli atleti dei college. I professionisti degli sport di squadra sono più propensi allo stupro, perché si crea la dimensione dello spogliatoio, del cameratismo. In Europa è più presente nel calcio, negli Stati Uniti è più diffuso tra i giocatori di football americano e di baseball.

Esiste un #MeToo anche nel mondo dello sport?
Sta cominciando sia per quanto riguarda la violenza di genere, comunque esercitata da uomini su donne, sia per quanto riguarda la violenza sui minori. La pattinatrice francese, Sarah Abitbol, (vincitrice di medaglie agli Europei e ai Mondiali, ndr) due mesi fa ha denunciato a distanza di tempo, l’allenatore Gilles Beyer per averla violentata e stuprata all’età di 15 anni. Il libro, da poco pubblicato, ha provocato grande scalpore in Francia, in tanti pensano che sia l’inizio di un #metoo sportivo. Abusi si sono verificati nel mondo della ginnastica artistica. Ci sono sport individuali che si prestano in modo particolare a un altro tipo di violenza sessuale, quella degli allenatori o dei dirigenti sulle giovani atlete. È una struttura diversa di relazione, ma il codice che passa nel mondo dello sport è sempre lo stesso: il dominio del mondo sessuale maschile, che viene percepito come una sorta di potere assoluto.

Nel mondo dello sport è più difficile denunciare, visto il rapporto stretto che intercorre tra un allenatore e una ragazza?
È più difficile sia per una questione di gerarchia, sia perché le vittime delle violenze subite sono molto giovani. A 15 anni è un’età in cui una ragazza ha una capacità inferiore di elaborare ciò che sta succedendo, ha la tendenza a percepire quello che subisce come una sorta di malinteso ingresso nel mondo degli adulti. L’elemento della vergogna a quell’età può essere molto più condizionante che in età adulta.

Questo succede perché il mondo dello sport è culturalmente povero?
È un mondo fortemente gerarchizzato. Ci sono figure alle quali viene assegnato un potere enorme, sia all’interno della società sportiva, sia nella relazione con il mondo esterno dove prevale il senso del divismo, in nome del quale certe cose sono dovute, fanno parte del proprio profilo di onnipotenza. La tendenza a fare delle relazioni sessuali un campo di potere è un elemento unificante. Il sesso nello sport è potere.

Un messaggio al mondo del calcio?
Non lasciarsi mai fuorviare dalla passione di tifosi nel giudicare i fatti, perché l’elemento più deteriore della vicenda Ched Evans è stato il massacro mediatico nei confronti della vittima, che alla fine della vicenda è stata l’unica condannata a una sorta di ergastolo, nel senso che ha dovuto cambiare i dati anagrafici cinque volte e la residenza due volte, perché è stata minacciata ripetutamente di morte. Adesso non sappiamo dove sia, vive una vita da morte civile, sono situazioni che non dovrebbero mai succedere, perché chi l’attaccava tramite twitter e facebook, partiva da uno stato d’animo di tifoso e non di cittadino. Certi fatti vanno valutati obiettivamente, senza farsi trascinare dall’emotività e dal tifoso.