(Da un articolo di Aldo Braibanti del 1964), Formiche uomini e macchine: «La strada del cielo profondo s’apre ormai irreversibilmente di fronte a noi per espandere la vita e non per uccidere, per cercare nuovi compagni e non nemici da combattere, oltre il fanatismo, l’intolleranza, la sopraffazione. Nessun automa che cerchi di riprodurre il mostro superumano ci porterà su altri mondi ma una nave il più possibile umana unita a noi in una simbiosi che ci ricordi l’intima alleanza del cavaliere col suo cavallo ma ancora di più dell’uomo con la terra del suo pianeta con gli esseri che lo coabitano in nome anche dei quali noi tendiamo oggi negli spazi la nostra mano di artefici. Il più importante segreto cibernetico, quello più vicino al limite là dove l’automa torna forza psichica, è chiuso in parte anche nel cervello delle formiche forse l’uomo può scoprire in lei questa parte e svilupparla nel suo modo…».

Ci sono 2 o 3 generazioni che di lui non sanno nulla o quasi, non ne hanno mai sentito parlare, eppure alcuni, proprio tra i giovanissimi, cavalcano del tutto ignari le sue idee, i suoi ragionamenti, i pensieri, le sue visioni e premonizioni sul nostro pianeta. Per quel che mi riguarda ne avevo sentito parlare da Gianfranco Fiore che per molti anni ha vissuto nell’appartamento sopra al suo e ne è stato a lungo amico oltre ad aver diretto il film: Blu Cobalto di cui lui firma la sceneggiatura, poi da Alberto Grifi (che insieme a Patrizia Vicinelli ed altri si era attivato per fare controinformazione finendo per 2 anni in carcere quasi contemporaneamente a A.B. mentre la Vicinelli si era dovuta dare alla latitanza) attraverso le cui riprese gli ho dato finalmente volto e voce e, alla fine, in una giornata terribile e indimenticabile, l’ho conosciuto di persona. Il 22 aprile del 2007 alle 8 del mattino Aldo Braibanti entrava nell’Hospice in cui era ricoverato Alberto Grifi, che sarebbe morto poche ore dopo, per salutare per l’ultima volta il suo vecchio amico.

Questo signore dai capelli bianchi, il cappotto nero spiegazzato, le lenti spesse e un po’ appannate, lucidissimo, schivo e un po’ malinconico è stato importantissimo nella storia culturale del nostro paese: poeta, scrittore, pittore, filosofo, eroe della guerra partigiana, iniziatore di avanguardie teatrali e cinematografiche, mirmecologo e «omosessuale e anarco-comunista». Far parte di quest’ultima «scellerata categoria» fu la scorciatoia infame con la quale una magistratura ancora molto legata al fascismo lo trasformò in un perfetto capro espiatorio in un processo farsa per plagio, un vero processo alle streghe, preteso argine morale e di monito alla Contestazione giovanile, con cui la parte più retriva, ignorante, fascista e pesantemente sostenuta dal clero del paese cercò di arrestare e reprimere il cambiamento sociale e culturale in atto.

Il processo iniziò nel 1968 e non è un caso. Il giudice Falco che lo condannò a 9 anni è lo stesso che condannò Valpreda per piazza Fontana e il perito psichiatrico dell’accusa che lo dipinse come un mostro di perversione era Aldo Semerari fascista legato alla mafia che qualche anno dopo fu trovato decapitato da Cosa Nostra. Braibanti in quel momento incarnava tutto ciò che la cultura di destra odiava di più: era un intellettuale (quindi un sovversivo), animalista, ambientalista ante litteram e soprattutto omosessuale! L’uomo che aveva resistito alle torture della banda Koch e Carità a Villa Triste scandendosi nella testa i versi di Baudelaire come fossero un mantra buddista capace di separare la mente dal corpo per sopportare il dolore e riuscire a non parlare, diventò il nostro Oscar Wilde e fu vittima di un’orrenda e ottusa persecuzione giudiziaria che gli costò due anni di carcere e sul cui processo l’Italia si divise a metà.

Finalmente questa incredibile storia viene raccontata e alla figura di Braibanti restituita dignità dal bel film Il caso Braibanti di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese che verrà presentato il 27 agosto al festival di Pesaro. Chiedo a Carmen Giardina di raccontarmi la storia di questo film: «L’idea è nata dopo aver visto uno spettacolo teatrale , Il caso Braibanti testo di Massimiliano Palmese, attori Fabio Bussotti e Mauro Conte regia Giuseppe Marini. Massimiliano, che già conoscevo, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto fare un documentario ma non aveva nessuna conoscenza del mezzo io invece venivo da un’esperienza recente da videomaker e documentarista… insomma abbiamo deciso di unire le forze e partire immediatamente poiché lo spettacolo era ancora in scena e abbiamo pensato che forse avremmo potuto utilizzarne alcune parti, come di fatto è avvenuto, poi ci siamo fermati per un po’ per organizzarci e siamo ripartiti dalle terre dei Braibanti: Piacenza, Castel Arquato, Fiorenzuola d’Adda e siamo andati a cercare chi lo aveva conosciuto e lo ricordava. È stato fondamentale l’incontro con Ferruccio Braibanti, il nipote figlio di Lorenzo fratello di Aldo, che era la persona giusta perché aveva vissuto tutta la storia accompagnando suo padre ogni volta che andava a Roma a seguire il processo e che poi, molti anni dopo, ha riportato suo zio Aldo a Castel Arquato quando è stato costretto a lasciare la casa romana.

Ferruccio Braibanti racconta con commovente precisione la sofferenza di suo zio il giorno della sentenza, maggiore di quella provata nella carcerazione subita durante la resistenza perché completamente assurda e immotivata basata su un reato di plagio indimostrabile e inesistente; ma ricorda anche le feste piene di ragazze e ragazzi che danzavano attorno al fuoco sotto al Torrione Farnese, subito dopo la guerra negli anni ’50, dove avevano fatto una specie di comune di artisti, una Factory antesignana dove si riunivano, tra gli altri, i fratelli Bussotti e i Bellocchio, Carmelo Bene, che di Braibanti disse: «era un genio, con la sua vocetta mi ha insegnato a marcare i versi» e all’inizio c’erano anche i due Sanfratello Agostino e Giovanni figli del segretario comunale D.C. e sarà proprio l’amicizia tra Giovanni e Aldo che provocherà l’ira della famiglia ultracattolica e fascista dei Sanfratello che spingerà Aldo e Giovanni a lasciare Castel Arquato e a trasferirsi prima a Firenze e poi a Roma alla pensione Zuanella da cui Giovanni verrà letteralmente rapito dal padre, il fratello e altri due familiari, infilato a forza in una macchina targata Città del Vaticano e poi rinchiuso in una clinica psichiatrica dove subirà 40 elettroshock e più di 25 coma insulinici e ciò nonostante al processo si rifiuterà di accusare Braibanti. Giovanni Sanfratello non vide mai più Braibanti dopo il processo, in una lettera gli scrisse che era obbligato ad accettare le regole di vita imposte dalla famiglia, dopo le cure psichiatriche non riuscì più a dipingere.

A Piacenza abbiamo intervistato Piergiorgio Bellocchio, fondatore di Quaderni Piacentini con cui Braibanti collaborò con diversi scritti, che prima che iniziasse il processo gli consigliò di lasciare il paese; Lou Castel che legge una sua poesia; Dacia Maraini che ricorda che lo difesero Morante, Moravia, Eco, Ginzburg, Pasolini, Pannella tra gli altri; Maria Monti amica fino alla fine: «ci sentivamo tutti i giorni ormai eravamo due solitari su questa crosta di formaggio…».