Nell’intervista pubblicata su questo giornale il 17 maggio, Andrea Orlando, a proposito della riforma del Csm, ha affermato che «se piace poco ai rappresentanti delle correnti, non è detto che sia un male». Si può essere d’accordo sul fatto che sia necessaria una riforma tanto del sistema elettorale quanto del funzionamento del Csm; il punto è capire quale tipo di riforma.

L’indagine di Perugia e gli stralci di numerose intercettazioni pubblicate dai giornali hanno mostrato l’esistenza di una «questione morale» dentro la magistratura. Ciò che emerge però non è, come potrebbe sembrare, sintomo di uno strapotere delle correnti, ma di un loro indebolimento ed asservimento ad interessi personali.

La funzione storica e imprescindibile delle correnti è stata quella di rendere palese una fisiologica differenza di opzioni culturali all’interno della magistratura, rifiutando il modello del «giudice burocrate». Quando le idee vacillano, subentrano le amicizie e i legami clientelari, e il modo di gestire le decisioni diventa lo scambio di potere reso possibile dal controllo di pacchetti di voti. Se così è, la soluzione non è additare le correnti come il problema, ma ritrovare il loro spirito originario e superare il modo consociativo di funzionamento del Csm. La sua riforma dovrebbe partire da questa premessa.

Dal canto loro, i magistrati (ancora di più se ricoprono ruoli di rappresentanza) hanno l’onere di non porre in essere atteggiamenti che sono indice di un’idea personalistica della funzione e che sviliscono l’alto ufficio che si ricopre. Chi indossa la toga non deve mai agire per motivazioni che non siano pubblicamente ostensibili e, quando ciò non accade, deve essere condannato in primo luogo dalla magistratura, come non sempre si è saputo fare. Pena la perdita di credibilità per formulare delle proposte di riforma alternative a quelle che vengono, legittimamente, dalla politica. Accanto a questo impegno etico, occorre promuovere interventi legislativi finalizzati a evitare lo svolgimento di funzioni direttive e semidirettive con logica carrieristica anziché con spirito di servizio.

Concepire il dirigente come un primus inter pares con compiti organizzativi che «rientra nei ranghi» dopo il mandato; pensare ad un sistema in cui i magistrati della singola sezione o del singolo gruppo siano interpellati nella scelta di coloro che li dovrà dirigere; meditare sulle modalità in cui si può mettere in pratica un potere di scelta diffuso e non solo accentrato sono le sfide a cui non ci si può sottrarre. Una magistratura forte e autorevole non deve avere paura di aprirsi al confronto con l’esterno, in primo luogo con gli avvocati. Su questo Orlando ha ragione.

L’importanza e la delicatezza delle funzioni giurisdizionali esigono, in un ordinamento democratico, la massima trasparenza: immaginare un ruolo degli avvocati nella valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari non può essere un tabù. Va riconosciuto, d’altro canto, che esistono particolarità locali impossibili da ignorare: il rapporto tra magistratura ed avvocatura non è lo stesso in tutti i tribunali d’Italia. La trasparenza nella funzione di giudici e pubblici ministeri deve essere accompagnata alla necessaria fiducia tra le diverse componenti del processo e richiede pertanto una forte assunzione di responsabilità anche da parte dell’avvocatura, in modo tale che i rapporti con la magistratura si possano inserire in quella mutua collaborazione di cui parlava Calamandrei nel suo celebre, e bellissimo, Elogio dei giudici scritto da un avvocato.

* L’autrice è dell’esecutivo di Md