La massa confusa di colori è animata da forze opposte che si agitano, esplorando un’idea di tridimensionalità associata ad uno spazio che è fisico e mentale. Indossando la maschera di tessuto shweshwe, lo stesso Siwa Mgoboza (Cape Town, Sudafrica 1993, vive e lavora a Cape Ttown) va oltre i limiti territoriali della propria identità e della cultura di provenienza per dar forma alle contraddizioni che vede intorno a sé. L’Africa, allora, si trasforma in Africadia.
Fresco di studi alla Michaelis School of Fine Art (Uct), il giovane artista ha partecipato nel 2016 alla prima edizione di Akaa (Also Known As Africa) a Parigi e al Lagos Photo Festival in Nigeria; una sua fotografia della serie Les Êtres d’Africadia (2015) è stata scelta come icona dell’VIII edizione del Mia Photo Fair, la fiera milanese di respiro internazionale dedicata alla fotografia. Il suo lavoro è esposto nella collettiva AfricaAfrica, exploring the Now of African design and photography a Palazzo Litta, Milano (visitabile fino al 2 aprile).

Nel suo approccio coloratissimo, c’è una doppia relazione con la cultura occidentale, sia attraverso l’ibridazione del tessuto che, in realtà, è un’eredità del colonialismo, che nella citazione picassiana dell’opera «After The Demoiselles d’Avignon» (2015)?
Questa relazione tra l’occidente e l’Africa ha molto a che fare con la mia vita. Sono cresciuto a Lima in Perù e poi in Polonia, avevo 18 anni quando sono tornato in Sudafrica. Sentivo di non appartenere ad alcun luogo. Venivo rifiutato dai neri, perché non ero come loro, così come dai bianchi. Ho imparato sulla mia pelle cosa volesse dire essere gay, nero, sudafricano. Di fatto, pur avendo conosciuto il paese attraverso i media e aver visitato il Sudafrica, prima di allora non ci avevo mai vissuto e non ero entrato in contatto con la gente. Mi sentivo un outsider e non solo per il colore della mia pelle, per il fatto che avessi vissuto all’estero o perché fossi gay. Ho deciso di inventare il mondo che ho chiamato Africadia, un’Arcadia africana in cui mi sono ispirato a Rousseau, ma che è proiettata verso il futuro, perché penso che sia arrivato il momento per la mia generazione di cambiare. Ma dobbiamo farlo da noi, quindi sono partito dalla rappresentazione del mondo attraverso me stesso.
Essendo per metà Xhosa e per metà Sotho – la mia cultura d’appartenenza è Hlubi – ho preso i tessuti tradizionalmente usati in Sudafrica. Realizzati originariamente in Olanda da schiavi indonesiani e spediti alla scoperta di altri mondi sono giunti in Africa e ce ne siamo riappropriati interpretandoli a modo nostro, tanto che oggi – guardando questi tessuti stampati – non si pensa all’Olanda o all’Indonesia, ma immediatamente all’Africa. Tessuti che, perciò, sono diventati un incredibile simbolo d’identità che trascende il concetto di origine e autenticità. Cosa siamo veramente? Chi è africano? Chi è europeo? Chi è bianco? Penso che tutti noi ci sia una combinazione di diversi fattori, alla fine diventiamo un ibrido. Così, nel mio lavoro, ho iniziato a prendere dall’uomo, dalla natura e dagli animali combinandoli tutti insieme per farli diventare un unico essere. Dallo scontro e dalla fusione di questi tre elementi nasce il paesaggio. Tutto sembra selvaggio. Solo soffermandosi qualche minuto in più si può riconoscere il punto di partenza. È diventato una reazione delle cose che mi circondano e di come relazionarmi a quella reazione. Mi sono chiesto se avessi dovuto mostrare quelle reazioni, o cercare la celebrazione e la bellezza della mia cultura rievocandola come un carnevale. Un carnevale che è legato alla schiavitù, ma anche alla tradizione portata avanti per secoli. Come poter trovare l’orgoglio e andare oltre le catene che ci hanno legato per diventare una nuova Africa e non quella degli stereotipi?.

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Foto di Manuela De Leonardis

Anche Samuel Fosso o Yinka Shobibare ricorrono alla tradizione, usando il loro corpo per ribaltare gli stereotipi vigenti sull’Africa…
Sì, conosco il loro lavoro. Ma il mio si basa su un’idea sulla molteplicità. La questione non è relativa alla singola individualità. Non giudico le persone, la razza, il genere, la sessualità… dimentico tutte queste cose. Non sono solo io, io, io.

Quando costruisce i suoi «tableaux vivants» c’è qualche differenza tra quelli inseriti all’interno di un paesaggio di fantasia, sgargiante e confuso, e quelli in cui, invece, lei appare circondato da maschere e feticci?
Le fotografie a cui si sta riferendo fanno parte della serie intitolata «Who let the beings out» che s’ispira alla canzone Who Let the Dogs Out, che fa Who Let the Dogs Out? Woof, woof, woof… Una canzone del 2000 che parla delle difficoltà dei neri in America, della polizia e della sua brutalità. Ho immaginato che quelle forze uscissero fuori nel mondo reale, confrontandosi con quegli oggetti ancestrali che oggi vengono riprodotti e commercializzati per la curiosità dei consumatori.
Stavo camminando per la città di Cape Town, senza una particolare intenzione di fotografare, quando mi sono imbattuto in quel negozio, sentendo che lì succedeva qualcosa di molto forte. Sapevo che quegli oggetti hanno un particolare significato, non sono semplicemente decorativi. Ma poi le domande, di nuovo, si sono spostate sul concetto di autenticità, sulla materia, sull’identità dell’artigiano che realizza il prodotto che, in realtà, non si conosce. Una serie di questioni che riguardano anche aspetti politici ed economici che interessano l’Africa. In questo caso, il lavoro è cominciato da me, ma è diventato universale e ci fa riflettere anche su quello che succede negli Stati Uniti, in Medio Oriente, in Asia e ovunque. Quel negozio è il Pan African Market che una volta era la sede dell’Ymca (Young Men’s Christian Association) e, prima ancora, era una moschea. Camminando lì dentro ho visto la bellezza del passato portato nel presente.

Qual è il ruolo della fotografia nella sua produzione artistica che contempla altre tecniche come collage, pittura e scultura?
Mi piace particolarmente la fotografia, perché è una verità che non si può nascondere. È stato importante usare il mio corpo, perché entro in questi spazi e devo capire come potermici muovere. Anche i colori sono quelli reali delle stoffe, non c’è editing. È una verità che posso indossare!