Harald Szeemann diceva sempre che «only tribes survive». Ed è immensa la tribù che tiene vivo il suo pensiero oggi. La sua è stata, senza ombra di dubbio, una delle figure che più ha alimentato velleità e aspirazioni di intere generazioni di curatori. Di fatto, se si cita, si parla o si scrive di Szeemann, ci si sente investiti dalla responsabilità di celebrare una figura mitica, la cui opera si compone tanto di una parte spirituale – lo sciamano degli anni di documenta 5, il primo curatore indipendente della storia dell’arte contemporanea, anche il primo curatore performativo – quanto materiale: un intellettuale che ha lavorato per tutta la vita a un archivio che oggi conta 28mila volumi e cinquecento metri circa di documenti. Un vero e proprio monumento di autoaffermazione.

A prescindere dal carisma e dall’attualità del suo pensiero, una riflessione sulla sua eredità su intere generazioni di curatori, storici e critici d’arte è necessaria principalmente per due motivi. Da una parte, l’apertura, prevista entro la fine di quest’anno, dell’archivio Szeemann, dal 2011 conservato al Getty Research Institute a Los Angeles, la più ampia collezione mai acquisita nella storia dell’Istituto di ricerca. Dall’altra, in linea di continuità e due anni dopo l’abbraccio «enciclopedico» della sua Biennale, la nuova grande mostra a cura di Massimiliano Gioni per la Fondazione Trussardi. Un guizzo nello scenario deludente degli eventi d’arte contemporanea legati all’esposizione mondiale.
La Grande Madre – questo il titolo della mostra (dal libro omonimo dello psicologo junghiano Neuman) che inaugurerà il secondo trimestre di Expo 2015 – «incarna il tema della nutrizione» attraverso l’analisi «dell’iconografia della maternità nella storia dell’arte e della storia e della cultura visiva a partire dal Novecento ad oggi», ma rappresenta soprattutto un omaggio al curatore svizzero. Szeemann, infatti, come spiega anche Pietro Rigolo, nel suo saggio uscito per Johan & Levi alla fine del 2014, lavorò per anni a una mostra mai realizzata dal titolo La Mamma.

L’approccio totale
A partire dal catalogo ragionato a cura di Tobia Bezzola e Roman Kurzmeyer, pubblicato nel 2007 – prima di allora, sono stati fondamentali per gli studi successivi i testi di Nathalie Heinich, Lucrezia De Domizio Durini, Søren Grammel e Hans-Joachim Müller – un’intera generazione di studiosi (alcuni dei quali furono anche amici e collaboratori di Szeemann), ha generosamente contribuito a diffondere l’eredità del suo pensiero con saggi, o utilizzando il formato della mostra d’arte contemporanea. Nel 2011, una parte ne ha ricostruito la storia umana e professionale, in occasione della conferenza Harald Szeemann in context, organizzata da Istituto Svizzero di Roma e Fondazione Querini Stampalia di Venezia (a cura di Stefano Chiodi, Salvatore Lacagnina e Henri De Riedmatten).

Sul tema delle mostre che ripropongono rassegne del passato, la studiosa e storica dell’arte Reesa Greenberg ha definito con l’espressione «remembering exhibitions» un approccio curatoriale nuovo. Solo due anni fa, con When Attitudes Become Form: Bern 1969 / Venice 2013, allestita nella sede veneziana della Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina, Germano Celant riattivava le relazioni fra opere, oggetti e architettura che il lavoro del curatore svizzero e gli artisti avevano prodotto in fase di allestimento più di quarant’anni prima.
Ancora di diverso tipo è il remake della mostra di Berna a opera di Jens Hoffmann (oggi vicedirettore del The Jewish Museum di New York) nel 2012. When Attitudes Became Form Become Attitudes, al Wattis Institute for Contemporary Arts di San Francisco, si offriva come il tentativo di rispondere alle provocazioni della storica rassegna; non ne rappresentò semplicemente la continuazione, ma ne ripristinava il ruolo nella storia dell’arte e ne rinvigoriva le idee: prendeva così una posizione nei confronti del sistema dell’arte.

L’occasione di investire sull’arte contemporanea sperimentale è una delle novità introdotte da Szeemann in ambito curatoriale. Pubblicato nel 2010 da Afterall, l’articolo di Claudia Di Lecce, che ha appena conseguito un dottorato in Urbanistica con Iuav e Università Paris-Est, Avant-garde Marketing: When Attitudes Become Form and Philip Morris’s Sponsorship fa luce su posizioni e interessi in gioco, a volte in conflitto, in un momento culturale e politico intenso, come la fine degli anni Sessanta, attraverso materiali d’archivio e interviste ai rappresentanti delle istituzioni, gli artisti e lo sponsor.

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Intrecci «italiani»
Nell’articolo, emergono alcuni punti in comune con il volume di Lara Conte (Università dell’Insubria di Como) Materia Corpo Azione, pubblicato nel 2010 da Electa, come, ad esempio, l’analisi dei ripetuti contatti di Szeemann con la Gnam a Roma e con l’allora direttrice Palma Bucarelli. Nell’ambito delle ricerche sui suoi rapporti con l’Italia, dal 1969 al 1980 – e cioè da When Attitudes Become Form ad Aperto 80 – Conte ricostruisce «il tessuto fluido e in divenire» dei rapporti fra il curatore svizzero, artisti e critici italiani.
In particolare, prende in esame il ruolo svolto da Piero Gilardi: l’artista non fu solo veicolo per le informazioni sui «colleghi» americani che presero poi parte alla mostra di Berna, ma soprattutto spostò l’attenzione sulla riflessione politica, mettendo in relazione When Attitudes Become Form con la storica esposizione sull’Arte Povera ad Amalfi, nel 1968.

La maggior parte degli studi sull’opera di Szeemann si concentra principalmente sul suo contributo all’arte contemporanea, alla scena creativa negli anni Sessanta Settanta, e sulle opere della trilogia (Le macchine celibi, 1975-77; Monte Verità, 1978-80; Der Hang zum Gesamtkunstwerk, 1983).
Solo più di recente ci si è soffermati sugli aspetti interdisciplinari e sulle inclinazioni che favorirono lo sviluppo di un nucleo concettuale unico nell’ambito dello szeemann-pensiero. Nel libro Immergersi nel luogo prescelto. Harald Szeemann a Locarno, 1978-2000 (ed. doppiozero, 2013), che precede il nuovo saggio La Mamma. Una mostra di Harald Szeemann mai realizzata, Pietro Rigolo – archivista presso il Getty Research Institute – analizza un preciso periodo nella sua carriera, quello trascorso in Ticino, e inserisce l’esperienza dell’allestimento dei musei di Locarno, nell’ambito di un flusso intellettuale coerente al pensiero e alla pratica del curatore svizzero.

Durante tutta la sua attività professionale, Szeemann ha studiato e si è appassionato a questioni che lo riguardavano personalmente, come Rudolf Steiner e la sua concezione olistica dell’uomo, visioni che gli permisero di dedicarsi alla sfera intima nell’ambito della sua attività curatoriale, soprattutto dopo documenta 5. Rigolo si basa sull’analisi di alcuni documenti inediti, scoperti presso l’archivio di Szeemann, già a Maggia. Si tratta di appunti, datati 1975 circa, su La Mamma, mostra che idealmente doveva, insieme a Il Sole, chiudere la trilogia iniziata con Le macchine celibi.
Se l’immagine della macchina celibe tentava di visualizzare l’idea di un circuito chiuso (psicologico, erotico, fisico), La Mamma avrebbe rappresentato un’apertura al mondo che reintegrava l’idea di tempo e di morte, la realizzazione della propria libertà nell’esistenza reale attraverso il dono della vita, piuttosto che nella creazione artistica. La mostra avrebbe toccato svariati temi e discipline, dalla mitologia greca fino all’attualità: storia delle religioni, del femminismo, arti visive, teosofia, letteratura, psicoanalisi, antropologia, architettura.
Nei musei di Locarno, quindi, Szeemann metterebbe in scena «un’idea di cultura e di arte aperta ai più disparati ambiti della conoscenza e della vita umana», nell’ambito di un processo in cui il curatore relega spesso l’oggetto d’arte a un ruolo marginale. Le macchine celibi sarebbero dunque il primo tentativo di Szeemann di dedicarsi a concetti che includono la filosofia e la psicoanalisi ad esempio, nella forma di una mostra d’arte; le mai realizzate La Mamma e Il Sole, di conseguenza, avrebbero dovuto perseguire questo stesso scopo, che il curatore non raggiunse mai, probabilmente a causa dell’inizio della collaborazione con la Kunsthaus di Zurigo (1981-2000).

Tra il 2013 e il 2014, le ricerche di Mariana Roquette Teixeira (ricercatrice e dottoranda all’Universidade Nova de Lisboa) sono proseguite al Getty Research Institute. Fu proprio nel corso di un periodo di riflessione che Szeemann inaugurò il suo «Museo delle ossessioni» con una mostra tanto rappresentativa quanto intima: Großvater: Ein Pionier wie Wir (1974). Si svolse nel suo vecchio appartamento a Berna, poi occupato dalla Galleria Tony Gerber, e includeva una selezione degli oggetti che erano appartenuti a suo nonno, un pionere dell’hairstyling di fama internazionale.
Secondo Teixeira, questa mostra fu allo stesso tempo una reazione a documenta 5 e la logica evoluzione di una serie di esposizioni precedenti in cui Szeemann sviluppò i concetti di «evento», «comportamenti» e «mitologie individuali», mentre, contemporaneamente, esplorava differenti soluzioni di allestimento.

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Una piattaforma del pensiero
Ambra Stazzone ha pubblicato nel 2014 Harald Szeemann. L’arte di creare mostre (Lupetti editore): è un volume dove vengono raccolti schizzi, piantine e foto degli allestimenti, più una serie di conversazioni inedite del curatore con l’autrice, avviatesi nel corso degli anni, presso la Fabbrica di Maggia. L’archivio di Szeemann ha avuto un ruolo da protagonista, è stato essenziale per tutte le ricerche sul curatore svizzero e per lo studio della storia delle mostre.
A pochi mesi dalla sua apertura (è conservato a Los Angeles), il mutamento nelle modalità di accesso a un tale corpus di documenti ridimensionerà automaticamente la maggior parte dei contributi che hanno preceduto tale cambiamento, a favore degli studi più recenti. Quella che in passato rappresentava una possibilità offerta a un numero limitato di persone, grazie allo sforzo della famiglia e dei collaboratori più stretti, oggi diventa una piattaforma sistematizzata.