Abitava “al di qua” del Tevere, a poche centinaia di metri dai confini della Città del Vaticano, ma Oltretevere Giulio Andreotti era di casa. Un «cardinale esterno» lo ha definito Andrea Riccardi, altro assiduo frequentatore dei sacri palazzi; un «segretario di Stato permanente», disse di lui invece Francesco Cossiga.

Semplificazioni a parte, le relazioni del sette volte presidente del Consiglio con il Vaticano, la Cei e le gerarchie ecclesiastiche sono state solidissime, da sempre. Come dimostrano i contatti avuti con quasi tutti i papi del ‘900, a cominciare da Pio XI che, benché fosse poco più di un bambino, conobbe durante un’udienza in Vaticano. Con i successori di papa Ratti invece i rapporti furono strettissimi. Ai tempi di Pio XII, Andreotti era presidente della Fuci (la Federazione degli universitari cattolici, con sede proprio in via della Conciliazione) ed iniziava a muovere i primi passi in politica, ma «nella fase finale del pontificato di Pacelli – ricorda il card. Silvestrini – spesso interloquiva in Vaticano per conto di De Gasperi». Poi Giovanni XXIII e, soprattutto, Paolo VI, di cui era amico da tempo: Montini era assistente della Fuci al tempo della presidenza Andreotti e fu proprio lui a “raccomandarlo” a De Gasperi che lo volle come sottosegretario in tutti i suoi governi. Decisamente solidi furono i rapporti con Wojtyla che, all’indomani della condanna in appello nel processo Pecorelli, assolse il senatore ben prima dei giudici della Cassazione: «Può darsi che queste prove ingiuste che le tocca sopportare servano, attraverso le misteriose vie della Provvidenza, a far del bene non solo a lei ma all’Italia», gli scrisse in una lettera che Andreotti conservò come una reliquia fino alla fine. E anche con Ratzinger, più volte intervistato da 30Giorni, il mensile di Comunione e Liberazione – movimento a cui era legatissimo – che Andreotti diresse dal 1993 fino alla cessazione delle pubblicazioni, nel maggio 2012.

Per questo in Vaticano lo ricordano con enfasi come «simbolo» della prima repubblica: «Uomo eminentemente pragmatico, con un’intelligenza e un’ironia riconosciute dai suoi sostenitori così come dagli avversari»», si legge sull’Osservatore Romano di oggi. Per il presidente della Cei Bagnasco, Andreotti è stato «un grande statista» che lascia molti «insegnamenti» e il «protagonista di un grande periodo nella nostra storia italiana». Mentre il card. Ruini – una sorta di alter ego ecclesiastico di Andreotti – ne sottolinea la «maniera discreta ma tenace di tenersi agganciato ai valori cristiani» sapendo «contemperare bene il ruolo istituzionale con le sue convinzioni di credente». Più misurato il notista politico di Civiltà Cattolica, dei gesuiti, p. Michele Simone: «Ritengo che non tutte le cose negative che gli sono state attribuite provenissero da lui. Penso che la storia darà un giudizio tutto sommato positivo». Qualche voce anche dalla Chiesa di base, quella del frate servita Benito Fusco: «Adesso che Andreotti è morto si dirà che è stato un padre della patria. Al massimo è stato un “padrino” e con lui se ne vanno molti segreti della vita politica italiana. La morte non cancella la storia di un uomo, anche se ce lo ritroveremo nella Gloria di Dio».