Fin qui tutto bene, nelle carceri italiane. O meglio, qualche problemino ancora c’è ma dovrebbe rassicurare la strada intrapresa dal ministero di Giustizia a guida pentastellata, almeno stando alle parole di Alfonso Bonafede che ieri in commissione Giustizia del Senato, indossando una mascherina prodotta in carcere con su scritto «Stop alla violenza contro le donne», ha riferito – con molte dimenticanze, tanto ottimismo e senza alcun contraddittorio da sinistra – lo stato dell’arte delle celle, ora che un picco dell’emergenza pandemica si può considerare superato.

Le misure anti Covid adottate, ha riferito il ministro, hanno «evitato la diffusione massiva del contagio» tra i detenuti. I quali, anzi, si sarebbero ammalati più ai domiciliari che in cella. Al momento solo 20 reclusi risultano positivi, di cui uno ricoverato in ospedale, mentre tra il personale dell’Amministrazione in 57 hanno contratto il virus. Nel maggio scorso invece «risultavano accertati solo 115 casi di positività tra i reclusi», un detenuto morto per Covid in cella e due che erano già ai domiciliari. Mentre tra il personale Dap, «al termine della fase 1, erano 159 i positivi a fronte di 40.751 persone in servizio». Due gli agenti morti.

Bisogna ammettere che il rigido lockdown imposto durante l’emergenza, per quanto doloroso, sicuramente ha dato i suoi frutti. Ma Bonafede rivendica come proprio successo anche la deflazione del sovraffollamento («al 31 agosto i detenuti erano 53.921, rispetto ai 61 mila dei primi giorni di marzo»). Salvo poi spiegare che il ministro non ha alcuna responsabilità se ad una manciata di detenuti in regime duro, particolarmente a rischio Covid, erano stati concessi in un primo momento i domiciliari, subito revocati dopo le furiose polemiche: al 23 settembre 2020 sono rientrati, « tutti e tre i detenuti sottoposti al regime del 41-bis che erano stati precedentemente inviati ai domiciliare, nonché i 109 detenuti appartenenti al circuito alta sicurezza», ha assicurato Bonafede, aggiungendo poi che di questi «70 risultano detenuti definitivi e 42 sono ristretti a titolo cautelare».

Inoltre «si è proceduto all’immissione anticipata in servizio di 1.100 nuovi agenti di polizia; all’assunzione straordinaria di 1000 operatori sanitari», e sono state reperite «risorse aggiuntive per oltre 7 milioni, tramite Dl 18 e Dl 34 del 2020, destinate agli straordinari per la polizia penitenziaria, oltre a 5.541.200 euro del Dl 104 in fase di conversione». E ora, nella fase post emergenziale, grazie al lavoro di 320 detenuti, scelti a turno «in tre strutture produttive individuate» saranno prodotte in carcere 800 mila mascherine chirurgiche.

Il guardasigilli insomma, offre una visione quasi rosea, ben sapendo che l’unica opposizione che riceverà viene da destra, dai portavoce di un populismo penale che chiede di «rimandare a casa loro gli immigrati» che affollano per il 33% gli istituti italiani, «il taser o lo spray al peperoncino» in dotazione agli agenti, le «fascette di contenimento», le «unità cinofile», regole più ferree e così via. Dimentica, Bonafede, (e qualcuno glielo fa notare) le rivolte di marzo con 13 detenuti morti, le violenze che ne sono seguite come quella di cui si riparla in questi giorni, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (vedi il manifesto del 21 aprile, 12 giugno e 14 giugno 2020) dove la richiesta di mascherine e la protesta di alcuni detenuti contro le misure di quarantena sarebbe stata sedata da decine di poliziotti a suon di torture. Mentre qualche senatore ricorda al ministro che l’Italia continua a pagare multe salate in base alla sentenza Torreggiani, perché continua a violare il diritto minimo di 3 metri quadri a testa richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la vivibilità di ciascun detenuto.

«I dati del ministro certificano il fallimento di certe politiche, come quelle nei confronti delle droghe leggere – commenta Giulia Crivellini dei Radicali italiani – proprio nelle ore in cui la Commissione europea torna a bacchettarci anche per l’eccessiva durata dei processi civili e penali».

Mentre Rita Bernardini, della direzione del Partito Radicale, punta il dito contro «il Pd degli Stati generali dell’esecuzione penale» che «non ha aperto bocca sulle pene alternative al carcere, o sulla carenza di figure professionali destinate al trattamento in carcere, assecondando così l’impronta securitaria. Mancanza di conoscenza e approssimazione – conclude Bernardini – sono la cifra di questo governo in cui il Pd ha interamente delegato la politica sulla giustizia e sulla sua appendice penitenziaria al M5S. Un disastro».