Potrà sembrare curioso iniziare il racconto di uno dei più grandi festival europei – festival di grandi spazi e di attenzione privilegiata nei confronti delle giovani leve della musica – con un riferimento a due concerti tenuti in un teatro al chiuso che hanno visto protagoniste due «signore» di settantasei e ottant’anni, nemmeno troppo legate a quel mondo del rock che è il vero humus del festival. Tant’è, il nostro personale percorso al Primavera Sound di Barcellona è iniziato così: con un concerto di Annette Peacock e con quello di Elza Soares all’interno dell’Auditori Rockdelux (altri non è che l’Auditorium dell’Edifici Forum, spettacolare costruzione triangolare che accoglie tutti gli astanti del Festival, all’ingresso del Parc Forum). Parliamo di personale percorso perché tutti i percorsi di questo festival mastodontico sono per forza di cose personalizzati, selettivi, precipui. Non è possibile seguire tutti gli eventi di una rassegna che in 4 giorni di programmazione presenta centinaia di concerti in una ventina di palchi diversi piazzati sia nell’area principale (quella del Parc Forum affacciata sul mare) che nel centro città, quindi inevitabilmente ognuno finisce per disegnare un proprio festival, comunque pregno di eventi, comunque speciale, tra sferzate stilistiche improvvise e omissioni inevitabili.

«Please, don’t hate me..» ha sussurrato Annette Peacock prima di iniziare il suo set per piano, voce e flebile supporto elettronico. Forse temeva anche lei di essere fuori contesto e invece il pubblico ha accolto con calore le sue canzoni che non hanno perso un briciolo della loro magia stralunata e del loro dna sperimentale. Quando è comparsa su quello stesso palco Elza Soares, l’attesa si è trasformata in boato. Piazzata in un trono a tre metri di altezza con ai piedi cinque talentuosi musicisti paulisti, l’ex moglie del calciatore Garrincha ha stregato gli astanti con un set portentoso, una voce inconfondibile e una stupefacente capacità di declinare la sua esperienza da veterana (e di donna che ha sofferto come nessuna donna dovrebbe soffrire) al servizio della grammatica sonora del Brasile del Terzo Millennio.

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È lo stesso tipo di sensazione che ha lasciato due giorni dopo lo spettacolo della sessantanovenne Grace Jones: restare se stessi, cambiando sempre. L’artista giamaicana ha messo in scena su uno dei due «main stage» del Primavera un caravanserraglio di suoni ipermoderni, scenografie afrofuturiste, cambi d’abito magistrali e classe cristallina. Anche il settantaduenne Van Morrison, poche ore prima e su quello stesso palco, aveva regalato un set molto tonico, ma nel suo caso si è trattato più di perpetuare una formula – il soul bianco forgiato con una voce aguzza come una lama – che non di adattarne quegli stilemi alla modernità. Solo vecchietti nel consesso catalano dunque? No di certo. Al Primavera Sound si va per capire l’«aria che tira» nel mondo della musica e per monitorare i talenti che stanno per esplodere. Certamente l’hip hop continuerà a reclamare i suoi spazi anche nei prossimi anni. La buona salute del rap è stata certificata dagli statunitensi Run The Jewels e Death Grips e dagli inglesi Sleaford Mods e Kate Tempest con la cordata anglosassone che ha vinto la sfida coi colleghi d’oltreoceano in quanto a declinazioni originali del flow, del groove e del sound.

Anche il cantautorato folk ha avuto i suoi ampi spazi nei palcoscenici del festival: lo zenith di attesa se lo era assicurato probabilmente il concerto di Bon Iver. Un concerto che non ha deluso, anche se alla lunga qualche piccolo patimento di suggestione lo ha pagato. È stata comunque un’orchestra di voci quella imbandita da Justin Vernon e dai suoi accoliti. Già dal secondo brano, alle continue e magistrali armonizzazioni vocali si è aggiunto anche il vocoder. Un espediente che Bon Iver adotta oramai con ostinata meticolosità e che a dire il vero rischia un poco l’overbooking perché di questi tempi lo stanno usando tutti. Voce inconfondibile anche quella del neo-crooner svedese Jens Lenkman che riesce a forgiare canzoni che sembrano classici del pop anche se sono stati composti l’altro ieri, vorremmo poter dire la stessa cosa del celebratissimo Mac De Marco, ma il suo pastiche canzonettistico ci sembra sempre un po’ troppo sempliciotto e non riusciamo a capire quale sia la scintilla di genialità che molti gli attribuiscono. Il pubblico ha dimostrato di apprezzare molto anche il nu-soul di Solange, sorellina di Beyoncè (insieme ai Commodores, sicuramente il suo principale riferimento stilistico) la quale pur essendosi data molto da fare sul palco portando uno spettacolo ben congegnato e ben «coreografato» ha finito comunque per dare la sensazione di proporre musica «autentica» come uno zigomo al botulino.

Detto che anche quest’anno gli italiani (Iosonouncane, Persian Pelican, Shijo X, Wrongonyou e Dj tennis) si sono battuti bene, togliendoci la sensazione di stare sempre nelle province più lontane dell’impero, e detto che il set pomeridiano più infuocato è stato probabilmente quello dei Slim Cessna’s Auto Club (arrivano da Denver e mescolano bene country, rock’n’roll e humour nero), vogliamo chiudere questo report parziale con un accenno esplicito alle proposte più elettroniche. Billy Bragg in uno degli incontri al CCCB del pomeriggio ha dichiarato che «i musicisti grime sono l’unica cordata che in questo momento sta facendo lo sgambetto ai poteri forti in Inghilterra».

Skepta, con un set infuocato chiuso alle tre del mattino, ha dimostrato di essere davvero la star più fulgida di questo genere che sta diventando «canone» ispirativo anche per gli stili e le basi più mainstream. D’altra parte Richard David James e Steven Ellison, meglio conosciuti come Aphex Twin e Flying Lotus, hanno ribadito in palchi diversi- che le alchimie dell’elettronica nel 2017 possono continuare a prendere anche altre derive. Ugualmente devastanti, alchemiche e ossessive.