Vale la pena chiedersi perché la questione del romanzo sia ritenuta così centrale dagli storici della letteratura ancora oggi, quando il romanzo è così indefinibile, se non come contenitore multiuso. È stato una forma potente e lo è, oppure è stata una forma potente dell’Ottocento e di un tratto di Novecento? Se la produzione straripa inutilmente abbondante e spesso trascurabile, ridotta a pura organizzazione narrativa, scarsamente conoscitiva, è forse perché scrivere romanzi, siano letti o no, è sentita ancora come la via più breve a potersi definire scrittori, con conseguente autorità a produrre opinioni le più varie su cronaca politica sport e ciò che si vuole. Induzione erronea, visto che lo stato anagrafico-fiscale di scrittore è rarissimo e non esiste se non a petto della la qualità della prosa. Tuttavia il primato del romanzo si dà per acquisito, e così sia.
Argomento oggi più interessante è dunque non tanto il romanzo ma la caratteristica della prosa che porta il romanzo, ormai di tale uniformità e talmente di servizio che ogni piccola scossa linguistica sembra annunciare il terremoto o almeno il temporale: è un falso allarme; al contrario, l’iperespressività, il più delle volte manierata, rischia di essere un mero involucro per il niente da dire, senza, esempio ovvio, la necessità che fece la grandezza di Gadda (sul quale pure si affacciano riserve che paiono in eccesso, perché non considerano che quell’esemplare è unico e convive con istanze radicalmente opposte, non vi si oppone: l’idea di canone e di militanza a tutti i costi – come su un campo di battaglia dove si rischia di combattere una guerra che non riguarda più nessuno – può avere questo di sommamente discutibile: che una cosa sembra dover escludere l’altra, mentre la ricchezza del paesaggio sta nella sua varietà. Ciò si dice non in una prospettiva irenica o cedevole, ma per salute e per senso di realtà.
Il romanzo in Italia, a cura di Giancarlo Alfano e Francesco de Cristofaro (Carocci editore: I. Forme, poetiche, questioni, pp. 419, € 37,00; II. L’Ottocento, pp. 683, € 59,00; III. Il primo Novecento, pp. 582, € 51,00; IV. Il secondo Novecento, pp. 625, € 55,00), con contributi non di rado assai notevoli di specialisti della penultima e ultima generazione, è un’opera che può essere di riferimento per molte questioni, comprese quelle appena dette, che si pongono direttamente o no nei saggi che la compongono: non solo nel primo volume, dove i capitoli di taglio storico a grandi arcate non si negano aperture teoriche, ma anche nei capitoli degli altri tre volumi, conclusi ognuno da schede dedicate a titoli importanti restati (più o meno) fuori del discorso e in qualche caso da recuperare, ma la cui rilevanza (allo stato attuale) non consente di estendere la trattazione a una paginatura più distesa. L’identità-rilievo delle opere trattate in schede è più di carattere squisitamente estetico (o di gusto) che storico-letterario (si riconoscono nella scelta alcune buone matrici, come per esempio, per l’Ottocento, la selezione di Calvino per la sua collana «Centopagine»). Tutto questo benché i due curatori dicano di titoli di «valore medio»: ma Una vita e Senilità, inclusi nello schedario, sono di valore medio?
Completano dunque l’idea canonica di quest’opera ragguardevole tali schede, per rimanere alle quali – e pur senza volerle fare troppo pesare sul resto, tanto articolato che ogni saggio meriterebbe un discorso a sé e in molti casi orienterà gli studi a venire –, arrivando verso i nostri giorni la scelta diventa più opinabile (il canone in formazione ha le sue incertezze) e vi si coglie un tratto partenopeo-centrico piuttosto curioso se non si considera che è fondato su una vista «da vicino» da parte dei curatori: Patroni Griffi, De Luca, Frasca, Ferrante… Su questo, ogni centro avrebbe da dire la sua, ma si immagina che l’intento dell’opera fosse proprio l’andare oltre i centri, proponendo un paesaggio nazionale. L’aspetto della conoscenza per cose vicine porta in sé un’altra questione per niente trascurabile: quella della circolazione del romanzo dentro un paesaggio tanto affollato. Come operare la scelta senza essere sicuri di lasciare nel dimenticatoio qualche reperto prezioso? O è superfluo ritenere che possa restare sconosciuto qualcosa col moltiplicarsi delle discussioni, pur dentro un’informazione letteraria caotica come non mai? Poco meno che un mistero è che cosa sia il pubblico del romanzo, quale sia mai l’effetto di una recensione e così via.
Il romanzo in Italia segna il solco di una tradizione: colloquiare con questa tradizione, con le sue vette e le sue valli, con le domande che suscita, dovrebbe essere un fatto naturale per i romanzieri che ci sono e che ci saranno. Non si può essere certi che davvero il colloquio ci sia e che, quando c’è, sia attrezzato come dovrebbe. Nata come strumento per studiosi e per studenti (avanzati), nulla toglie, dunque, che quest’opera importante possa essere perfino un appropriato e auspicabile vademecum per romanzieri e aspiranti tali.