L’avvocata che difende uno dei carabinieri accusati del pestaggio cerca di fare il suo mestiere: vuole far cadere in contraddizione l’imputato superteste, Francesco Tedesco, confutare l’atto d’accusa che il vicebrigadiere ha rivolto contro i suoi due commilitoni e coimputati, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. Lo incalza, lo sommerge di domande, spera di vederlo cedere per sfinimento, dopo ore di controinterrogatorio. Ma l’uomo tiene la barra dritta e la legale segna un autogol.

Ilaria Cucchi, che come sempre assiste insieme ai genitori al processo bis per la morte di suo fratello, lo sottolinea quasi subito su Facebook: «Vorrei ringraziare l’avvocato Maria Lampitella, difensore di D’Alessandro, che ci ha fornito un ulteriore e rilevante elemento – scrive in un post – Stefano in auto con i carabinieri al rientro dalla stazione Casilina avrebbe detto: “Io muoio ma a te ti levano la divisa” (rivolgendosi a Tedesco, ndr). Stefano era stato appena picchiato e stava proprio male».

IL SUPERTESTE nega di aver sentito questa frase, ricorda invece il silenzio del giovane geometra romano, anche mentre prendeva uno schiaffo, un calcio sul coccige e subito dopo, quando era steso a terra, un calcio in faccia. E ricorda quella frase piena di disperata dignità pronunciata mentre tentava di rimettersi in piedi: «Sto bene, sono un pugile io».

In ogni caso, l’orrore della scena che si era consumata nella stanza del fotosegnalamento della caserma Casilina, rievocata da Tedesco anche ieri per la seconda udienza consecutiva, è ormai agli atti del dibattimento che si svolge davanti alla Corte d’Assise. E a fine interrogatorio, dopo che ha raccontato tutta la sua verità per la prima volta, dopo quasi dieci anni, in un’aula di tribunale, Tedesco si alza e si dirige verso Ilaria. Le tende la mano e le sussurra: «Mi dispiace». «Grazie», è la risposta della donna. Finalmente entrambi non sono più soli.

Il carabiniere “pentito” – che nel giugno 2018 ha denunciato in procura il pestaggio e la scomparsa dall’archivio della caserma Appia della sua nota di servizio nella quale, subito dopo la morte di Cucchi, raccontava la verità – ripete che si sentiva in trappola. Per questo assecondava i suoi colleghi fingendosi d’accordo con loro e mentendo pure al telefono, che supponeva sotto controllo. «Di Bernardo e D’Alessandro (i cui nomi non risultavano neppure nel verbale d’arresto, ndr) si sono nascosti dietro le mie spalle per tutti questi anni – afferma il vicebrigadiere – per dieci anni loro hanno riso e io ho dovuto subire. Mi sono stancato. A differenza mia, non hanno mai dovuto affrontare un pm. L’unico ad affrontare la situazione e ad avere delle conseguenze ero io. In tutti questi anni l’unica persona che aveva da perdere ero io, ero stato l’unico minacciato di licenziamento».

TEDESCO racconta di aver maturato subito la convinzione di dover parlare, ma di aver rinviato cercando di recuperare la sua annotazione di servizio scomparsa, in modo da poter dare sostanza alle sue denunce. Afferma di essere stato finalmente convinto dalla lettura del suo capo d’accusa (gennaio 2017) per omicidio preterintenzionale stilata dal pm Giovanni Musarò. E soprattutto di aver trovato il coraggio necessario dopo la sospensione dall’Arma (febbraio 2017): «All’inizio l’ho presa male, ma poi l’allontanamento dalla caserma e dai colleghi mi ha permesso di non sentirmi più sotto pressione, di sentirmi libero nella coscienza».

In aula ieri c’era anche il maresciallo Roberto Mandolini, comandante della caserma Appia, imputato nel processo per falso e calunnia con l’accusa di aver coperto i due carabinieri e tentato di far ricadere la colpa del pestaggio sui poliziotti penitenziari (assolti nel primo processo).

SEDUTO tra il pubblico, Mandolini ha ascoltato con aria esplicitamente compiaciuta la testimonianza a suo favore del maresciallo Enrico Mastronardi, all’epoca comandante della stazione di Tor Vergata. Mastronardi ha dipinto Riccardo Casamassima (il primo carabiniere ad aver rotto il muro di omertà insieme a sua moglie Maria Rosati) come un «caso difficile», un violento da controllare e di cui non fidarsi. Ma nella lunga e nervosa deposizione, nella quale il teste indagato ha bisticciato più volte col pm e con gli avvocati di parte civile, entrando spesso in contraddizione con quanto precedentemente raccontato agli inquirenti, Mastronardi ammette di aver parlato del caso Cucchi con Mandolini «una sola volta, per pochi minuti nel mio ufficio di Tor Vergata».

ALLORA, «MI DISSE che la Polizia penitenziaria stava cercando di scaricare la responsabilità sui carabinieri che avevano proceduto all’arresto e che il generale Tomasone, all’epoca comandante provinciale di Roma, aveva tenuto una riunione per avere particolari sulla vicenda». Ma soprattutto, ricorda il testimone, «Mandolini mi disse anche che al momento della perquisizione la madre di Cucchi era molto arrabbiata con il figlio, dicendo “non lo voglio più vedere”».
Mastronardi è attualmente indagato nell’ambito dell’inchiesta integrativa sul depistaggio che già oggi probabilmente si trasformerà in richieste di rinvio a giudizio per lui e altri sette militari (tra i quali anche il generale Alessandro Casarsa).

E ieri i tre poliziotti penitenziari assolti definitivamente nel 2015, Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici, ora parte lesa, hanno depositato un atto per costituirsi parte civile nell’eventuale processo per depistaggio, insieme alla famiglia Cucchi. In modo da poter ottenere un risarcimento danni non solo dagli autori materiali del pestaggio ma anche da coloro che semmai risultassero colpevoli di aver insabbiato la verità per dieci anni. Anche se i reati ascritti agli otto indagati nella terza tranche dell’inchiesta potrebbero andare presto in prescrizione.