La grande migrazione diretta in Europa è un fatto storico che nel tempo inciderà sempre più sui suoi assetti demografici, sociali, politici, sui modelli culturali.

Di fronte a questo dato di fatto, governanti di diversi paesi dell’Ue e alcuni esponenti delle istituzioni comunitarie, da un lato, sottolineano la portata dei flussi migratori in termini esclusivamente negativi e minacciosi, dall’altro, promettono di arrestarli con muri, rimpatri e perfino finanziando altri paesi perché facciano da guardiani ai confini. E’ del tutto evidente che, in tal modo, s’inganna l’opinione pubblica, si punta su strumenti destinati a fallire, si mettono in discussione i cardini dell’Unione.

C’è da chiedersi quali siano allora le vere ragioni di tali scelte. Per rispondere a questa domanda è utile precisare alcuni fatti.
In primo luogo, non ci troviamo di fronte ad un’inondazione improvvisa, una sorta di tsunami umano. I flussi migratori dai paesi del Sud del mondo verso quelli più ricchi dell’Europa occidentale e gli Usa sono andati, via via, aumentando negli ultimi venticinque anni. L’aumento è calcolato in riferimento agli immigrati di prima generazione, ovvero nati all’estero e regolarmente censiti, vale a dire immigrati che hanno ottenuto permessi di soggiorno e che svolgono attività lavorativa regolare. Questi immigrati costituiscono oggi il 12% circa della popolazione in Francia, Germania, Gran Bretagna, il 10% in Italia e il 13% negli Usa.

Sappiamo bene che prima di giungere ad una regolamentazione della propria condizione lavorativa e censuale, quegli uomini e donne hanno dovuto scalare i duri e ripidissimi gradini del lavoro clandestino e supersfruttato, poi quelli dei lavori più pesanti, malpagati ed estremamente precari.

Lungo questo doloroso percorso, gli immigrati non tolgono proprio nulla ai lavoratori autoctoni. Sono solo sfruttati al massimo da datori e appaltatori di lavoro privi di scrupoli. Anche quando raggiungono la meta agognata della regolarizzazione della propria situazione, la maggioranza di loro trova impiego nelle occupazioni meno appetibili. Solo in parte e col tempo accedono a occupazioni migliori e a pari condizioni con la manodopera locale. Ma, anche in questo caso, essi non sottraggono lavoro agli occupati del paese ospite. Semplicemente, si aggiungono ad essi, aumentando il volume complessivo della manodopera impiegata. Il loro inserimento nel mercato del lavoro dei paesi in cui si dirigono dipende dalla quantità e tipologie di lavoro richiesto.

Le cause della disoccupazione nei paesi più sviluppati sono altre e riguardano principalmente tre strategie di massimizzazione dei profitti adottate nel trentennio neoliberista: 1) la massiccia delocalizzazione di attività produttive in paesi meno sviluppati per sfruttare manodopera a bassissimo costo; 2) l’automazione spinta della produzione grazie ad applicazioni della microelettronica ai fini della massima riduzione, intercambiabilità e precarizzazione della manodopera impiegata; 3) il cospicuo e crescente spostamento di capitali dagli investimenti produttivi alla speculazione finanziaria.

Tutto ciò ha provocato un deciso spostamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a vantaggio del primo e ha consentito una sistematica riduzione dei diritti di tutti i lavoratori, sia locali che immigrati.

Un’altra mistificazione grossolana, eppure diffusa, consiste nel sostenere che l’accoglienza di migranti e profughi costa troppo per gli stati e sottrae risorse utili per i cittadini già residenti. E’ stato ampiamente dimostrato che le tasse e i contributi versati dagli immigrati non solo ripagano, ma eccedono abbondantemente le spese dei servizi e prestazioni di welfare di cui essi si valgono.

Ancor più consistenti sono i vantaggi che vengono dal lavoro degli immigrati per la crescita economica più in generale, nonché dal loro apporto agli equilibri demografici. E ciò vale per l’Italia come per gli altri paesi dell’Ue, come dimostrano recenti studi dell’Ocse.

Perché, allora, ci si ostina a presentare all’opinione pubblica il fenomeno migratorio come ingovernabile e minaccioso? E perché questa rappresentazione falsa e questa chiusura si sono accentuate notevolmente negli ultimi anni?

La risposta non può essere che una: per ragioni politiche valutate nel breve periodo e nei termini più ristretti.

Il fallimento delle strategie economiche e delle politiche neoliberiste è sotto gli occhi di tutti. La crisi e la recessione prolungata sono i sintomi più evidenti. La forte e crescente concentrazione tecnico-produttiva e finanziaria ha finito con il frenare e, tendenzialmente, arrestare l’allargamento delle basi produttive. Sennonché tale allargamento costituisce una dinamica vitale per lo sviluppo capitalistico.

In termini sociali i costi sono stati enormi. Le diseguaglianze sono cresciute a tal punto da determinare una sorta di piano inclinato nella stratificazione sociale sul quale continuano a scivolare non solo le classi lavoratrici, ma anche i ceti medi. Ciò significa che per la maggioranza della popolazione dei paesi del capitalismo storico è venuta meno la possibilità di mobilità sociale e la speranza di migliorare le proprie condizioni e quelle dei figli. Il che è causa di un profondo malessere e disagio nella maggioranza della popolazione.

Stando così le cose, i gruppi economici e politici dominanti hanno bisogno dei mezzi più facili e rozzi per ristabilire controllo e disciplinamento sociale. Occorre deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle vere ragioni del malessere. Quindi, si cerca d’indirizzarla verso una supposta minaccia proveniente dall’esterno. La figura dell’immigrato, cioè di colui che è estraneo e diverso, si presta benissimo a tale dirottamento.

Ma la deriva xenofoba comporta un altissimo costo politico. La negazione dei diritti fondamentali dell’uomo non è circoscrivibile agli immigrati. Sono diritti universali o non sono. La loro negazione compromette le basi giuridiche del patto sociale e condanna le istituzioni politiche che provocano tale rottura ad una crisi di legittimazione.