Per chi è appassionato di gastronomia e di faccende alimentari, non può passare inosservata la ribalta mediatica che negli ultimi quindici anni ha travolto questo mondo. I cuochi sono i nuovi artisti contemporanei e le cucine dei grandi ristoranti (ma non solo dei grandi) assumono l’aura di luoghi sacri della creatività e del piacere. Difficile non farsi prendere da questa tendenza anche perché è un processo che ha portato a ricollocare il cibo e la riflessione su di esso in una posizione di centralità nel discorso pubblico. Un’attenzione che, partendo dal piatto, è auspicabile che possa diventare volano anche per un settore come quello agricolo che vive un momento decisamente complicato.

Eppure c’è un aspetto che non viene quasi mai toccato: lo sfruttamento diffuso che avviene dentro le cucine. Orari di lavoro anche di 60 o 70 ore settimanali, retribuzioni misere quando ci sono e stage reiterati e prolungati a costo zero. Poche possibilità di reale crescita, sacrifici enormi. Una condizione che, volendo usare una perifrasi un po’ forte, potremmo definire «caporalato gastronomico» per richiamare allo sfruttamento che purtroppo vediamo abitualmente nelle nostre campagne. Paradossalmente poi (e questo è stato oggetto anche di una discussione ai «Dialogos de Cocina» di San Sebastian, un evento che ha visto la partecipazione dei più grandi cuochi del mondo) questa situazione inaccettabile è tanto più presente quanto più si sale nella «gerarchia» della ristorazione, ovvero quando si approda all’alta cucina.

Proprio la forza mediatica dei grandi cuochi rende appetibili posizioni che dovrebbero «fare curriculum» e aprire prospettive di impiego ma che ancora troppo spesso si riducono a mero sfruttamento del lavoro. Trascorrere 80 ore alla settimana a pulire insalata in un ristorante con 3 stelle Michelin non è la porta per il paradiso, e chi se ne approfitta dovrebbe esserne consapevole almeno quanto chi è vittima. Ecco allora che, una volta tanto, bisognerebbe avere il coraggio di interrogarsi su un modello di ristorazione differente. Bisognerebbe chiedersi se è proprio necessario, per un impiegato della ristorazione, lavorare 14 ore al giorno per 6 giorni alla settimana e si dovrebbe iniziare subito a lavorare per individuare strumenti normativi e contrattuali adeguati per tutelare questa categoria. Perché un’attività imprenditoriale che per essere economicamente sostenibile ha bisogno di poggiare su una massa di stagisti non retribuiti e su migliaia di ore di straordinario non pagate dovrebbe mettere in discussione il proprio modello di business. E non possono bastare le tante eccezioni positive a ridimensionare un problema diffuso a livello globale. Il sistema così com’è non sta in piedi, e i lavoratori devono venire prima di tutto.

Per un paese come il nostro che fa della cucina e dell’agroalimentare una bandiera, questa riflessione dovrebbe essere urgente. La dignità di chi lavora non può essere mai svilita né barattata con un’esperienza sul curriculum. Al contrario, se vogliamo che questa sia davvero un’eccellenza, è interesse di tutti invertire la tendenza, in primis proprio dei cuochi. La qualità è tale solo se rispetta i lavoratori, diversamente è sfruttamento.