La mostra Les clefs d’une passion, primo affondo della Fondation Vuitton sul terreno museale e sull’arte moderna, allinea una incredibile, imperdibile (ma forse inutile) scelta di capolavori. Una mostra che finisce per essere la coreografia di un mega-prestito ricevuto dai più importanti musei del mondo, un red carpet per le diverse figure istituzionali che si sono offerte per portare a termine una operazione: il supporto e la creazione del brand artistico LVMH.

La logica di un uso improprio del capolavoro «embedded» si è installata nella prima linea della guerra fredda tra mercato e realtà e reitera un preoccupante discorso di fondo. Pensiero unico e strategia economica vincente fingono persino di dibattere all’interno di una società oligarchica. Di fatto, una specie di club governa la mutazione profonda che esso stesso ha imposto al sistema mondiale dell’arte negli ultimi quindici anni.

La rassegna sfodera ovviamente una serie di opere imperdibili, dal popolarissimo Urlo di Munch fino alla monumentale Danza di Matisse. Un trionfo iconico da capogiro, che comprende i lavori di Ferdinand Léger del Moma, i più sofisticati ritratti di Hélene Schjerfbeck; vi sono anche due rari Francis Bacon, per non parlare dei Malevic di ineguagliabile bellezza. La confezione è un grande testimonial, packaging e teaser dell’esistenza mediatica del capolavoro.

Il tutto esige però un contrappunto di qualche gigante semisconosciuto. Per esempio, l’artista finlandese Akseli Gallen-Kallela, le cui vedute del lago Keitele diventano – nell’accrochage proposto da Suzanne Pagé, direttrice artistica della Fondazione – un antidoto snob alle celebrate e inquiete (forse anche troppo popolari) acque delle ninfee di Monet, a cui sono accostate.

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Visitare questa elegantissima esposizione riconduce il visitatore indietro, agli anni di un’estetica da pubblicità appropriazionista. Già negli anni ’70, il tedesco Hans Haacke era stato tra i primi a denunciare il fatto che i musei avessero intrapreso la rischiosissima strada di trasformarsi in uffici di relazione pubblica del grande business e, soprattutto, dei suoi interessi ideologici. Ora i giochi pericolosi messi in atto dal neoliberismo rispetto questa particolare merce che è l’arte stanno modificando in modo permanente la percezione. Tendono a smantellare la lettura sociologica, economica e, ovviamente, mediatica dello sguardo pubblico.

È una corsa sfrenata al degrado etico, in cui è persino difficile comprendere quali siano i confini tra il pubblico e il privato. Una fondazione privata con grande risonanza mediatica ed economica manda subliminali inviti in cartoncino con il Matisse di cui sopra, in nome di presunte equivalenze fondate su un enorme malinteso: cosa gli appartiene e/o a chi? Assistiamo, vagando tra capolavori di Brancusi e Picasso, alla trasformazione di un comune patrimonio culturale. Come pubblico siamo parte del passaggio cruciale da opera (capolavoro o meno) a prodotto culturale e, successivamente, alle sue versioni più o meno economicamente accessibili, vedendolo lentamente sprofondare nella sabbia mobile del gadget. Lo strumento di comprensione del delicato passaggio tra un precocissimo Malevic e un primo Mondrian (o gli argomenti di opposizione) sono livellati da questa estetica da Ogm che riadatta al consumo, la rilettura del dna di un’opera. Sparisce tutto ciò che ne fonda il valore culturale e la sola dissezione attraverso l’appropriazione della sua iconicità finisce per veicolarne logiche completamente estranee al suo statuto.

L’Urlo di Munch è in prestito dal museo di Oslo, viaggia con un dispositivo antifurto da brividi ed è guardato a vista da due guardiani. Un telo nero che lo copre quando non ci sono visitatori; contemporaneamente, al museo Munch di Oslo Bjarne Melgaard, grazie alla carta bianca lasciatale sulle collezioni, mescolava capolavori come Pubertà o Autoritratto all’inferno con il suo espressionismo duro e virale. Possiamo credere che tra quella prossimità quasi pornografica e questo sequestro irriverente di opere non ci sia connessione, ma non è così.

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È un colpo basso, in una sofisticata versione concettuale, quello che è in mostra a Parigi. Un dadaismo alla rovescia, siamo entrati in una fase nuova. Lo scollamento dal valore culturale ricorda l’abbandono della parità valuta e oro e tocca oggi un punto di non ritorno. A lungo termine, anche il lavoro di tutte le figure cautelari che pensavamo preposte al controllo borsistico dell’arte – visto che di questo ormai si tratta – critici, conservatori, collezionisti ed esperti sparirà. Avevano vegliato, almeno in una fase, al corretto funzionamento del sistema. Ora la logica del profitto riscrive la liturgia. È finita la gratuità hyppie e inelegante del primo Beaubourg; in fondo, era un po’ come la messa beat nelle chiese.

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A nessuno verrà in mente di chiedere conto di queste scelte, lo spostamento e l’utilizzo di un Brancusi o di un Rothko, per motivare la passione di un collezionista privato, sia un singolo o un gruppo. E un’altra immagine si sovrappone nel duello Rothko x Rothko. È una copertina che il quotidiano Libération dedicò all’illuminato mecenate della Fondation Louis Vuitton. Era un quadro giallo arancio e blu e troneggiava alle spalle del signor Arnault con un titolo agguerrito: Vattene stupido ricco, riferendosi alla richiesta di un nuovo domicilio fiscale. In fondo, il sublime Rothko n°48 della mostra è molto più elegante e al «privato» non appartiene ancora.