Shanà, la parola ebraica che significa «anno», ha un senso paradossalmente duplice: la sua radice infatti fa riferimento tanto al concetto di «ripetere» quanto a quello di «cambiare». Un apparente controsenso che la tradizione ebraica si incarica di spiegare: se infatti da un lato la ritualità implica di per sé la ripetizione di parole e la reiterazione di gesti allo stesso tempo, per evitare che si trasformi in retorica vuota di senso, deve contenere in sé la capacità di innovare e di rinnovarsi.

ED È A PARTIRE da questa duplice direzione che si inaugura, la sera di lunedì 6 settembre, per la precisione il primo del mese di Tishrì, l’anno 5781 del calendario ebraico. Rosh ha Shanà (che tradotto significa letteralmente «capo d’anno») ha un ruolo centrale e inaugura un mese fondamentale ricco di celebrazioni e riflessioni. I calendari infatti sono diversi: alcuni dipendono dal sole, altri dalla luna, altri ancora – come quello ebraico – combinano il tempo dell’uno e quello dell’altra. Proprio per gli strani casi dei calendari, la sera di lunedì prossimo, in aggiunta alla specifica funzione in sinagoga, gli ebrei di tutto il mondo iniziano il nuovo anno mangiando cose buone e dolci in segno di buon augurio per il futuro eppure, a indicare la duplice direzione di senso, Rosh ha Shanà è anche il «giorno del giudizio» in cui Dio inizia a valutare il comportamento sia del singolo che dell’intera umanità. Resta quindi – anche in questo caso – una coesistenza tra elementi di permanenza e cambiamento.

Iniziano allora i dieci giorni penitenziali, giorni di riflessione e di introspezione che conducono a Yom Kippur, il giorno dell’espiazione (quest’anno dalla sera del 15 settembre al tramonto del 16). Dieci giorni in cui, a partire dal ricordo della creazione del mondo si ha una sorta di nuovo inizio di tutti gli inizi che implica un’opportunità di rinnovamento che muove dalla riflessione su di sé. Dieci giorni chiamati «Yamin noraim – i giorni terribili» tale è l’intensità dell’impegno che li caratterizza: un periodo però che non è destinato alla sola riflessione, conservando infatti il senso di duplicità iniziato a Rosh ha Shanà, i dieci giorni penitenziali implicano – e impongono – atti concreti e vincolanti: l’obbligo – ad esempio – di chiedere scusa per i torti inflitti. Ma non si tratta di pentimento come inteso nella cultura occidentale (e cristiana): uno dei grandi maestri della tradizione ebraica, Mosé Maimonide, esegeta e filosofo medioevale, dedica alla ricorrenza il testo Hilkhot ha-teshuvà, di cui una prima ipotesi di traduzione del titolo è «norme per il pentimento», ma il significato si presta ad essere indagato con maggior attenzione.

«TESHUVÀ» infatti indica piuttosto un ritorno che un pentimento e Hilkoth significa percorsi piuttosto che norme. In aggiunta è significativo rilevare che il titolo è declinato al plurale, «ritorni»: nella metafora rabbinica quindi la traduzione – e l’indicazione che se ne trae – è «percorsi di ritorno»: riconoscendo in questo plurale una molteplicità e varietà di possibilità quale che sia il punto di partenza individuale. «La Teshuvà – scrive il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni nella prefazione dell’opera (Giuntina 2015) – riguarda prima di tutto un moto dell’anima, una decisione radicale che determina tutte le future scelte, ma che pur sempre rimane inizialmente interna e non ancora visibile».

Un esito possibile che, ancora una volta, è duplice: da una parte infatti è riparatore dei torti commessi, dall’altra la Teshuvà contiene in sé la possibilità di essere creatrice. Secondo il Maharal di Praga – filosofo, talmudista e matematico del Cinquecento – infatti se una tende a riparare gli errore e le cose sbagliate, la seconda, volta e mossa dall’amor di Dio, crea una cosa nuova e giusta, l’una è quindi volta al passato, la seconda al futuro. Eppure né la Teshuvà – il ritorno – né il giorno di Kippur possono espiare se non le colpe commesse verso il Padre Eterno. Si definisce così anche in questo caso una duplice direzione: una verticale dedicata e implicante la relazione con Dio, l’altra, per così dire, orizzontale che riguarda la relazione con gli altri e la collettività nel suo insieme.

Per tutti questi motivi il giorno di Kippur, il giorno del giudizio finale, ci si astiene dal mangiare, dal bere e da altre forme di godimento: sembrerebbe quindi che il distacco dalla dimensione materiale consenta di tornare alla natura intima ed essenziale di ciascuno. Un contesto – che conserva ancora una duplicità di senso – in cui «la colpa» non è intrinsecamente negativa indicando piuttosto un percorso di consapevolezza di ciò che si è stati nel passato e avvia alla trasformazione e alla capacità di reinventarsi il futuro.