Le note di una chitarra acustica accompagnano un testo malinconico, mentre spezzoni dell’ingiallita pellicola sovietica «Provincial Romance» scorrono sullo sfondo. Uno sventurato innamorato viene sopraffatto da «ricordi come gocce di pioggia»; lui non si vede, ma il timbro di voce rivela distintamente l’identità del cantautore. «È una delle mie prime canzoni, nonché una specie di motto. Mi ha aiutato a superare molte difficoltà nel corso della vita», spiega il presidente kirghiso Almazbek Atambayev in un breve preambolo. Pubblicato su Youtube lo scorso anno, il video musicale ha collezionato circa 75mila visualizzazioni in soli due giorni, incassando l’apprezzamento commosso dei netizen: «Oggi ho scoperto un altro Atambayev».

La passione del leader centroasiatico per il canto (condivisa da molti colleghi regionali) ultimamente è sfociata nel rilascio di due ulteriori brani in lingua kirghisa, mettendo in moto la fantasia di molti: che il presidente – in odore di pensionamento – voglia intraprendere una nuova carriera? Chissà. Agli sgoccioli del suo primo e ultimo mandato, per il momento Atambayev sembra se non altro intenzionato ad ingentilire la propria immagine dopo due anni di polemiche: un emendamento della costituzione volto a proibire i matrimoni gay, la proposta di una legge contro le Ong straniere (bloccata in parlamento) e l’introduzione di un referendum costituzionale sospettato di rafforzare la deriva oligarchica della politica locale sono costate alla Repubblica del Kirghizistan e al suo khan pesanti critiche. Pesanti lo sono tanto più se si considera le speranze a lungo riposte dalla comunità internazionale nel governo di Bishkek, l’unico nella regione ad essere generalmente definito «democratico».

Il rapporto di Freedom House «Nations in Transit» – che dal 1995 monitora l’andamento delle riforme politiche in 29 paesi dell’Europa dell’Est e dell’Asia Centrale – quest’anno tratteggia un quadro allarmante. Non solo lo spazio ex-sovietico ha continuato a evidenziare un’involuzione nel processo di democratizzazione dal 2004 a oggi, ma sulla base dei dati raccolti lo scorso anno – tenendo conto dei processi elettorali, società civile, corruzione, indipendenza dei media e degli organi giudiziari – per la prima risulterebbero esserci più «regimi autoritari che democrazie consolidate». La dicitura «regime autoritario consolidato» torna così ad essere estesa a tutte e cinque le repubbliche centroasiatiche, incluso il Kirghizistan che, reduce da elezioni parlamentari «soddisfacenti», dal 2011 fino allo scorso anno era riuscito a mantenersi in equilibrio sul filo del burrone con un 5,89 in pagella su 7 (il voto peggiore).

Mentre l’Ong americana scorge possibilità di un (difficoltoso) upgrade dell’Uzbekistan – sopravvissuto a un ricambio politico «soft» dopo la recente morte del leader Islam Karimov al potere dal 1989 – le mancate promesse seguite a due rivoluzioni colorate (nel 2005 e nel 2010) sono costate al governo di Bishkek una clamorosa bocciatura. Secondo Freedom House, il peggioramento riportato dall’Eurasia – maggiore a sud e a est della regione – va letto alla luce dell’ascesa populista, intesa come quella tendenza che attecchisce in «una nazione, unita contro un’élite corrotta e una presunta minaccia straniera», e alla ricerca di «un leader carismatico in grado di dar voce ai desideri del paese». Valutando l’inclinazione demagogica degli ultimi anni, il rapporto conclude che «i regimi autoritari dell’Eurasia hanno dimostrato di essere in grado di mantenere il potere ma non di creare Stati più efficienti». Tanto meno di «mettere a tacere le lamentele popolari», nonostante la violenta repressione dell’opposizione politica, dei media e della società civile. Prima del crollo dell’Unione Sovietica, le repubbliche socialiste non godevano di una vera e propria «statualità» presentandosi all’esterno come gli ingranaggi di uno stato federativo fortemente centralizzato sotto il cappello moscovita, e delimitati da confini «artificiali» poco consoni alla complessa geometria etnica e religiosa della regione.

Fino alla conquistata da parte dell’Impero russo nel XIX secolo, il territorio che oggi costituisce l’Asia Centrale risultava ripartito tra imperi nomadi e sedentari, khanati e tribù turco-mongole in continua rotta di collisione. Zoroastrismo, nestorianesimo, buddhismo e islamismo si sono succeduti conquistando il cuore dei vari regnanti. Non stupisce che, una volta acquisita formalmente l’indipendenza da Mosca, il mantenimento dell’unità e della stabilità interna dei neo-Stati sia diventata una questione di assoluta priorità per i leader locali alle prese con divisioni regionali e frizioni inter-claniche. Da qui la necessità di controllare il dissenso attraverso apparati di sicurezza collettivi (quali la Collective Security Treaty Organization) e locali, la cui esistenza stessa riceve giustificazione dal rinfocolare di movimenti islamici radicali, veri (l’Islamic Movement of Uzbekistan) o presunti (l’Islamic Renaissance Party of Tajikistan)

Terminata la Guerra Fredda, l’affievolirsi dell’ideologia marxista-leninista come collante ideologico e il senso di smarrimento derivante dalla perdita improvvisa del «capo famiglia» russo, hanno reso impellente la ricostruzione di un’identità nazionale attraverso mezzi altri. A tale scopo diventa strumentale l’instaurazione di un legame simbiotico tra la pancia del paese e il proprio leader, ora dipinto come emanazione della volontà popolare, garante di benefici sociali e «crisis manager» nei periodi più turbolenti. A lui spetta l’arduo compito di proteggere ciò che i sociologi definiscono «sicurezza ontologica», ovvero quello stato mentale stabile assicurato da un senso di continuità riguardo alla propria identità individuale e collettiva. Un obiettivo perseguito principalmente attraverso la promozione di un «nazionalismo pragmatico», dove la ricerca di radici autoctone comuni si scontra con tutte le criticità derivanti dall’esigenza di identificare un minimo comune denominatore in un meltinpot di etnie – oltre 100 nel solo Kazakistan.

Nel corso degli anni, l’immagine paternalistica del capo di Stato ha trovato la propria legittimazione a livello nazionale grazie all’indefesso lavoro degli apparati propagandistici, protesi al rafforzamento del consenso popolare a dispetto della traiettoria marcatamente autocratica mantenuta dai vertici del potere.
Così, mentre i khan ostentano la propria «umanità» pizzicando le corde della dombra (in Kazakistan) o mixando alla consolle in versione DJ (in Turkmenistan), da dicembre l’effige del presidente kazako Nursultan Nazarbayev adorna le banconote da 10mila tenge, mentre in Tajikistan l’introduzione del «President’s Day» è stata recentemente affiancata da una legge che prevede l’arresto per chiunque osi criticare il lider maximo Emomali Rahmon.

Parimenti, in Turkmenistan la natura fortemente dispotica del regime ha ricevuto conferma attraverso una revisione costituzionale volta a liberare la presidenza da qualsivoglia limite d’età e a estendere la durata del mandato di Gurbanguly Berdimuhamedow da cinque a sette anni.

Ma il culto della personalità non è l’unico espediente impiegato per fini di legittimità popolare. Come sottolineano Alessandra Russo ed Edward Stoddard in «Bolstering Autocrats? Regional Interactions, Colletive Ontological Securitry And Regime-Boosting», anche la politica estera finisce per convergere verso l’interno.
Nel contesto post-sovietico, il regionalismo diventa per gli uomini forti uno strumento attraverso cui scambiarsi lealtà e reciproco supporto con l’obiettivo, da una parte di cementare il proprio status internazionale agli occhi dei cittadini, dall’altra di riaffermare oltreconfine la sovranità del loro regime, sottolineandone l’inclusione nell’«ordine mondiale».

La strategia è quella di fare sistema attraverso organizzazioni regionali funzionali alla sponsorizzazione di un «modello» di governance in dichiarata competizione con il bagaglio ideologico esportato dalle potenze occidentali. La Comunità degli Stati indipendenti, la Shanghai Cooperation Organization e l’Unione Economica Eurasiatica – pur presentando problematiche fratture interne acuite dal ruolo ambiguo di Mosca – promuovono sottotraccia la difesa di un pluralismo valoriale che non solo salvaguarda le peculiarità culturali di una fetta di mondo sottorappresentata, ma si presta anche a respinge le frequenti critiche sollevate da Stati uniti e Unione europea in materia di diritti umani.

Al contempo, nel corso degli anni le ambizioni globali delle oligarchie centroasiatiche si sono cristallizzate in un network di relazioni «neopatrimoniali» mirate ad occultare le ricchezze dei vertici politici nei ben noti paradisi fiscali, così come documentato nei Panama Papers e analizzato da Alexander Cooley e John Heathershaw in «Dicators Without Borders».

Quella corruzione continua a trarre nutrimento dall’intreccio perverso tra l’abuso del potere politico e il malcostume nepotistico.
Nel mentre, un uso sconsiderato delle casse statali si riflette nella costruzione di dispendiose e autocelebrative opere pubbliche, come il pennone più alto del mondo a Dushambe e il nuovo «complesso Olimpico» ad Ashgabat.

Malgrado tutto, sinora la sostenuta performance economica si è rivelata un prezioso elisir di lunga vita per l’establishment centroasiatico. Ma il rallentamento innescato dall’altalena dei prezzi del petrolio e delle materie prime, coniugato alla frenata della Russia –  imprescindibile fonte di rimesse per le ex repubbliche socialiste –  rischia di tradursi in un’erosione del consenso popolare.

Lo scorso anno, le proteste contro la privatizzazione delle terre in Kazakistan (definite da Astana un tentato colpo di Stato) hanno rivelato l’evanescenza di quello che al momento è ancora il regime più longevo della regione.

Nonostante le proiezioni incoraggianti per il 2017, un recente studio della World Bank («Europe and Central Asia Economic Update») fa chiaro riferimento all’aumento della diseguaglianza sociale, alla lenta crescita economica e ai cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro come tre concause della graduale polarizzazione sociale e dell’insoddisfazione della vita, vero anatema per i nuovi khan. Cantarci su, probabilmente, servirà a ben poco.