«La missione che mi è stata data è l’Isis. Non è costruire una nazione, non è rovesciare il regime siriano». Il generale Dempsey, capo di Stato maggiore Usa, è chiaro: il compito della coalizione non è far cadere il presidente Assad o ridisegnare la mappa politica della Siria. È fermare il califfato. Parole che pesano come macigni sulla Casa Bianca che, per accontentare gli alleati saudita e turco e i propri interessi usa la guerra per cambiare volto a Damasco.

Obama lo ha ripetuto più volte: Assad non è un partner nella battaglia contro il califfato. E la Turchia ha più volte usato la carta Assad per costringere il fronte anti-Isis a piegarsi sulle proprie posizioni, ponendo come condizione all’intervento militare l’impegno a sostenere le opposizioni moderate.

Ma la faida interna ai gruppi anti-Assad non aiuta gli alleati Usa, che sono stati messi all’angolo da Stato Islamico e Fronte al-Nusra. Con la firma dell’alleanza militare, i due gruppi islamisti hanno unito le forze contro chiunque non li sostenga. La prima vittima è il Fronte Rivoluzionario Siriano, subito entrato nel mirino del nuovo asse: ieri miliziani di al-Nusra hanno giustiziato membri del gruppo rivale.

E l’altro alleato, la Turchia? Ieri il premier iracheno al-Abadi ha siglato un accordo di cooperazione alla sicurezza con la controparte turca. Il primo ministro turco Davutoglu ha ripetuto che la minaccia terroristica incombe su Ankara quanto su Baghdad. Eppure quanto fatto dalla Turchia pare andare in un’altra direzione. Al sostegno indiretto all’Isis, Amnesty ieri ha aggiunto un’altra accusa: secondo l’organizzazione, da dicembre 2013 a agosto 2014, l’esercito turco alla frontiera ha aperto il fuoco e ucciso almeno 17 rifugiati siriani che cercavano di entrare in Turchia per avere salva la vita.