Coloro che criticano il capitalismo, o perlomeno i suoi eccessi, possiedono una propensione a leggere gli eventi in corso con una elevata dose di drammatizzazione. Toni spesso apocalittici. Le contraddizioni sono chiaramente enormi, ma ogni evento di rilievo tende ad essere schiacciato secondo lo schema «nulla sarà più come prima». Il tracollo sembra sempre dietro l’angolo.

Un approccio che veniva trattato con un’efficace dose di ironia da Giorgio Ruffolo quando affermava che il «capitalismo ha i secoli contati». Ora cercando di stare lontani da tale sentimento (perché di questo si tratta), che risulta consolatorio e spesso contraddetto dalla realtà, pare interessante riflettere su quanto afferma un analista che dell’attuale sistema finanziario è parte integrante. Robert Almeida è, come si dice tra gli addetti del settore che soffrono di anglofilia, strategist della società di gestione finanziaria MFS IM.

Ad aprile sottolineava come le scelte di politica monetaria ultraespansive, adottate gli anni successivi alla crisi di Lehmann Brothers, non potessero proseguire all’infinito. Affermava che «È come se le autorità (monetarie) non avessero semplicemente offerto da bere a tutti, ma avessero lasciato il conto aperto tutta la notte». Da qui crescenti squilibri, con inflazione degli asset finanziari e deflazione di quelli reali. Va puntualizzato che tale dinamica è figlia di un ciclo espansivo fondato su una interconnessione profonda tra crescita finanziaria e crescita, o tenuta, della produzione.

Nel 2008 questo schema sembra andare definitivamente in crisi, il «keynesismo finanziario e privatizzato», per dirla con Bellofiore, genera inflazione finanziaria, ma questa crescita fittizia e speculativa «sgocciola» sempre meno nell’economia reale. La divergenza non è il frutto di trame oscure, ma l’effetto di un’economia reale ingolfata, di un modello giunto al limite delle sue possibilità di riproduzione. Lo spartiacque è individuato nella crisi del 2008, dunque, che viene arginata prevalentemente con espedienti monetari dalle banche centrali. L’economia resta stagnante, pochissime risorse raggiungono il mondo reale.

Nessun volano si dà tra finanza ed economia reale. Nel frattempo sono arrivate pandemia e guerra in Ucraina, fattori che Almeida giudica esogeni, ma sottolinea anche come non ci sia da stupirsi se ora emergano fenomeni inflattivi, «il caos lungo le catene produttive, l’aumento dei costi del lavoro (1.000 anni di storia dimostrano che la partecipazione alla forza lavoro precipita dopo ogni pandemia)». Insomma ad aprile provava a leggere i più recenti accadimenti con un angolo visuale di più ampio respiro.

Ieri, in un intervista su «Il Sole 24 ore», focalizza ulteriormente i problemi. Sostenendo in particolare, che le Borse continueranno il loro andamento in discesa dopo i fasti dello scorso decennio e che l’inflazione sarà strutturale. I titoli azionari scenderanno, perché preoccupano le scelte restrittive delle banche centrali e perché scenderanno i margini di profitto. L’inflazione corrisponde al tentativo di scaricare il più possibile i costi di questa riduzione su consumatori, lavoratori e lavoratrici.

Secondo Almeida è finita la possibilità per le aziende di aumentare i margini di profitto riducendo i costi. Sulle cause di questa tendenza avanziamo qualche perplessità quando parla di un sistema produttivo globale sempre più trasparente costretto a rendere conto ai clienti, sembra più puntuale invece quando individua le ragioni nell’accorciamento delle catene del valore e in una nuova ricentratura su base geopolitica. In ogni caso sottolineare il problema dei costi ci sembra il punto centrale. La riduzione dei costi è messa sotto pressione da diversi processi endogeni e insieme esogeni ai processi economici. Tale parabola segna l’attuale contesto, finendo per ridisegnare gerarchie e interessi su una nuova scala globale. Il rischio concreto è l’insostenibilità sociale e ambientale di questa nuova fase.