Il titolo lascia aperte molte chiavi interpretative del pluriennale percorso di riflessione compiuto attorno al nesso tra teoria, letteratura e capitalismo. Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Alberto Asor Rosa, Giovanni Arrighi, Frederic Jameson e David Harvey sono i compagni di viaggio di Daniele Balicco per dare forma e sostanza al titolo del suo volume Nietzsche a Wall Street (Quodlibet, pp. 170, euro 18).

UNA DELLE CHIAVI interpretative viene fornita nell’introduzione. Il titolo fa il verso al celebre scritto di Mario Tronti Lenin in Inghilterra, là dove il filosofo marxista italiano proponeva un metodo dell’analisi del capitalismo a partire dal’autonomia operaia rispetto il capitale. Nietzsche a Wall Street invita a continuare su quella strada facendo tesoro di un esecrabile mutamento nello spirito del tempo, esemplificato dalla torsione sovversiva effettuata da molti intellettuali di sinistra delle tesi del filosofo tedesco, assunto al ruolo di demolitore delle forme borghesi che tengono ingabbiata la soggettività umana alla ricerca di un vivere pienamente un radicale desiderio di libertà. A Wall Street però il desiderio, la libertà dal bisogno sono il kernel di un sistema operativo che ormai domina il mondo. Tutto è possibile, anche diventare l’alfiere di una vita spericolata all’insegna del godimento.

Il Nietzsche qui tratteggiato ricorda – più che il tormentato filosofo di fine Ottocento – il protagonista del mirabile film diretto da Martin Scorsese The Wolf of Wall Street.
Daniele Balicco sa che indicare nella filosofia di Nietzsche la logica culturale del capitalismo finanziario contemporaneo non è una operazione neutra. Deve cioè contestualizzare, storicizzare l’opera del filosofo tedesco e della sua ricezione nella seconda metà del Novecento. Per fare ciò, tuttavia, ricorre all’aiuto degli scritti di Franco Fortini sul surrealismo, considerato una prassi culturale e poetica di rottura nei confronti di un ingessato marxismo sovietico che chiudeva gli occhi sul potenziale sovversivo delle avanguardie. Franco Fortini, invece, nella cura di una raccolta di poesie e scritti dei surrealisti ne valorizza la capacità destrutturante del pensiero dominante.

Nella riproposta di quel volume, decenni dopo, Fortini scriverà però che il «surrealismo di massa» è ormai diventato la forma comunicativa, espressiva di una cultura ridotta a frame mediatico, innocua trasgressione non antagonistica al pensiero dominante. Più o meno come avviene con Nietzsche, che da teorico di un individualismo radicale e aristocraticamente agli antipodi della massificazione della società borghese diviene inizialmente il filosofo da usare nella crisi del marxismo eurocentrico per mantenere aperta la strada della trasformazione radicale della società per poi essere assoldato nelle file del neoliberismo più radicale.

QUESTA TENDENZA a recuperare, sterilizzare, ricondurre a «ragione dominante» la critica è però una costante del capitalismo. Rimane da stabilire se in questa sussunzione del pensiero critico tutto vada perduto, cioè se viene annichilita la capacità di resistenza e di invenzione culturale degli oppressi. Per sciogliere questo nodo serve più che ricostruire il filo rosso della tradizione marxista novecentesca, una critica dell’economia politica della attuale produzione dell’opinione pubblica che renderebbe il percorso certo più accidentato ma più produttivo di sapere critico; si partirebbe infatti dalla realistica constatazione che nella produzione di cultura e dell’opinione pubblica da parte dei media tradizionali e da Internet è all’opera lo stesso regime del lavoro salariato.

L’autore però non si avventura su questo sentiero. Si concentra sulle polemiche fortiniane con Pasolini e Italo Calvino, la condanna del movimento del Settantasette, trasformando Fortini in una sorta di anacronistico custode della buona eterodossia da contrapporre alla cattiva eterodossia. Più interessanti sono invece gli scritti dedicati a Giovanni Arrighi, Frederic Jameson, Edward Said e David Harvey. Un economista, un geografo e due critici letterari che hanno fatto i conti con le trasformazioni del capitalismo e le aporie del pensiero critico moderno.

DAVID HARVEY ha messo a confronto l’insieme della teoria marxiana con la globalizzazione capitalista, la centralità della finanza e il neoliberismo. Giovanni Arrighi, invece, è l’economista che ha colto il doppio legame e l’assoluta rilevanza della lunga durata sulla contingenza politica. Edward Said è l’intellettuale militante a favore della causa palestinese, ma anche il fertile studioso dell’orientalismo della cultura occidentale. Frederic Jameson è, infine, il critico del postmoderno come logica culturale del capitalismo.

Gli autori richiamati si sono mossi con la consapevolezza dell’ormai inadeguatezza della costellazione marxista novecentesca; difficilmente possono cioè essere presentati appunto come custodi di una tradizione filosofica e culturale. Il nodo da sciogliere è come rimanere antagonista senza rinunciare a innovare il pensiero critico. Dunque come avventurarsi in un mondo che richiede sempre quel delicato ma indispensabile movimento di stare dentro e contro il presente? Certo non indicare nell’uso di questo o quel filosofo estraneo alla tradizione marxista come espressione di qualche quinta colonna del nemico nelle proprie file. Semmai, ripartire proprio da quella indicazione di metodo che parte dalle forme di resistenza maturate dentro e contro i rapporti di potere dominanti. Lasciando così Nietzsche al suo destino di homeless di lusso che continua a vagare nelle strade di New York inseguendo i feticci delle volontà di potenza della finanza.