Laura Pennacchi ha ripreso la proposta di Maurizio Landini “di un progetto condiviso da governo, sindacati e imprese, perché il paese non si sbricioli sotto i colpi della deindustrializzazione … per questo il baricentro della proposta del segretario generale della Cgil è la connessione tra questioni del lavoro e della sua qualità, nuovo modello di sviluppo ecologicamente sostenibile, democrazia economica” (il manifesto 17 dicembre).

La necessità di un progetto condiviso tra i soggetti richiamati da Landini è all’ordine del giorno, ma senza l’Europa è difficile delinearlo. L’Europa si trova davanti a un appuntamento importante: caduto il Fiscal Compact, diversamente da quanti credono che sia ancora in vita (non è passato all’interno del diritto comunitario per merito di Gualtieri), il governo dell’economia europea dovrebbe trovare degli inediti equilibri che non passano dalla riforma del Mes (l’appello di 32 economisti: “No all’Esm se non cambia la logica europea”). Si tratta di predisporre un bilancio pubblico europeo adeguato per affrontare i cambiamenti che l’attendono, finanziato con risorse proprie e non da trasferimenti degli Stati; è un obbiettivo fondamentale. In effetti, nell’era della globalizzazione è lo Stato che ha perso terreno rispetto al capitale, così come il lavoro ha perso terreno rispetto al capitale in misura ben peggiore delle denunce sulla distribuzione del reddito.

Il ripiegamento del lavoro, vero finanziatore dello Stato, ha determinato la sconfitta dello Stato e quindi dell’economia pubblica rispetto al capitale. Paradossalmente ci sarebbe un’occasione per un’alleanza Stato-lavoro per ridimensionare il capitale a un livello adeguato (Europa).

Come suggerirebbe Riccardo Lombardi, occorre cambiare il motore della macchina senza fermarla e, per questa via, creare tanto lavoro quanto se ne perde, magari di buona qualità. Sul punto occorre essere molto chiari: se l’Europa non attraversa un buon momento, l’Italia industriale vive una crisi nella crisi. Il lavoro non nasce dalla benevolenza di qualcuno. Il problema italiano è legato a un capitale (capitalisti) che ha rinunciato alla crescita in ragione della sua de-specializzazione che ha condotto i salari agli attuali livelli. Non è un problema di rapporti di forza, comunque ridimensionati per colpa dell’arretramento dell’intervento pubblico, piuttosto da una struttura che ha conservato i propri tassi di profitto al margine della remunerazione salariale.

Se il Pil nazionale cresce meno della media europea, anche i salari sono costretti da questa dinamica, con una aggravante, con il ritiro dello Stato come agente di intermediazione tra capitale e lavoro, il profitto ha potuto conservare la propria posizione. Il capitale italiano, anche quando finanzia gli investimenti, impoverisce il Paese: il moltiplicatore degli investimenti nazionali sono una frazione di quelli tedeschi. Il Piano del Lavoro della Cgil e la discussione del forum degli economisti erano e sono un progetto da prendere sul serio. Chi, che cosa e come produrre sono gli oggetti della riflessione della politica sindacale; il lavoro è legato all’evoluzione del capitale e del ben-essere; Capitale-Lavoro-Stato sono la società e devono sempre trovare degli equilibri superiori.

Sebbene il capitale evolva e cambi il contenuto dell’accumulazione, il patto deve poggiare almeno sul diritto liberale. Lo Stato e il Lavoro dovrebbero accrescere il loro ruolo come istituzioni del capitale. Ovviamente il capitale non deve soccombere, almeno fin a quando viviamo in una società capitalista. Il rischio latente di una cornice condivisa è quello di prefigurare delle soluzioni tra coppie, in particolare tra capitale-lavoro. In realtà dobbiamo raccogliere i tre insiemi (capitale, lavoro e Stato) e allargare la sovrapposizione dei tre insiemi, prefigurando una Europa che almeno diventi un’area economica degna di questo nome, magari senza la contraddizione dei paradisi fiscali pur in presenza di una moneta unica.