Nell’attuale fase storica il paradigma tecno-economico dominante attribuisce particolare rilievo al «capitale sociale territoriale», con un ruolo sempre maggiore svolto dalla presenza di «comunità della scienza e del sapere» (Università e Centri di Ricerca) disponibili a cooperare e integrarsi con le «comunità d’impresa» dirimpettaie.
Tali comunità locali sono l’incubatore primario di sviluppo hi-tech. L’incontro tra i due know how (tecnologico e imprenditoriale), necessari per innescare fenomeno chimico dell’intraprendenza, avviene nei cosiddetti milieux d’innovazione: luoghi deputati a facilitare lo scambio comunicativo tra ricercatori, imprenditori e manager nelle forme dello spin-off, dello start-up e del trasferimento tecnologico. Il sociologo di Berkeley Manuel Castells definisce questo milieu «un insieme specifico di relazioni di produzione e di management, basate su un’organizzazione sociale che condivide una cultura del lavoro e obiettivi strumentali volti alla generazione di nuova conoscenza, nuovi processi e nuovi prodotti». Quindi, Università e Centri di Ricerca non vengono impegnati soltanto quali contenitori di saperi, ma anche attraverso un coinvolgimento in prima persona. Cioè, la creazione di imprese per la valorizzazione diretta di risultati scientifici e tecnologici delle istituzioni di ricerca, attuata attraverso l’«imprenditorializzazione» di quei ricercatori che hanno messo a punto l’idea del nuovo business.

Vale il caso dell’università di Stanford, che con oltre 4000 incubazioni aziendali ha svolto un ruolo determinante per il decollo di Silicon Valley; non meno importante quello del Massachusetts Institute of Tecnology (MIT), agente fecondatore del distretto hi-tech bostoniano (Route 128).

Dagli Usa all’Europa

Il modello affermatosi negli States si è ormai radicato anche in importanti centri universitari europei, da Lund (Svezia) a Cambridge (Uk), a Twente (Olanda); fino a diventare patrimonio dell’intera Unione europea, intenzionata a «fare dell’economia europea la più competitiva e dinamica del mondo, fondandola sulla conoscenza». Questo il modello teorico di riferimento, i cui successi si misurano sul metro delle imprese e dei (buoni) posti di lavoro creati rinnovando merceologie.

Come lo si declina in Italia? Cioè un Paese alla disperata ricerca della riqualificazione del proprio modello di sviluppo, a partire dal mix produttivo. Perché – al di là delle chiacchiere da convegno – si compete offrendo beni e servizi che suscitino interesse. Come fu al tempo del miracolo economico; trainato da prodotti di rinomanza mondiale quali la 600 Fiat, la Divisumma Olivetti, la Vespa Piaggio o il Moplen della Montedison (con cui il capo ricerca Alessandro Natta vinse il premio Nobel). Mentre il catalogo su cui giochiamo la nostra sempre più flebile partita ormai presenta livelli di innovazione medio/bassa, con soglie minime alla riproducibilità in Paesi a costi del lavoro inferiori.

Dunque una partita vitale. Ma in cui si evidenziano ancora una volta le carenze della nostra mentalità formalistico-burocratica, inchiodata alla cultura degli adempimenti a scapito del problem solving, incapace di dare concrete applicazioni in tema di networking competitivo. Ci si limita a occultare il fallimento con retoriche mistificatorie di un hi-tech salvifico, stile manna dal cielo; simulando mirabilie inesistenti.

Progetti evaporati

Un buon punto di osservazione è l’area di Genova, nella cui periferia opera da quasi un decennio l’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), fortemente voluto dall’allora ministro Giulio Tremonti e ora adottato dal governatore Claudio Burlando; destinatario di ciclopici finanziamenti pubblici. Dello strombazzato lavorio Iit non pervengono notizie in termini di effetti fertilizzanti del territorio limitrofo, devastato dalla deindustrializzazione. Ma se ne chiedi ragione al direttore scientifico Roberto Cingolani, ti risponde che i mandati ricevuti dal finanziatore pubblico sono altri: mantenere un alto profilo. Dunque fornire spunti per le solite campagne d’immagine. Come pura immagine si sta rivelando la cittadella tecnologica in costruzione dall’altro lato di Genova, sulla collina di Erzelli. Progetto a cui Renzo Piano ha tolto la firma perché stravolto da logiche speculative; fatte proprie già da chi sta installandosi nei suoi 45 ettari. Come la Ericsson che, appena ricevuti i finanziamenti pubblici compensativi del trasferimento di sede, ha «licenziato» il proprio reparto Ricerca&Sviluppo.

In effetti questo gran parlare di hi-tech senza traduzioni reali induce il sospetto che si tratti di fumisterie a copertura di operazioni sostanzialmente immobiliaristiche. Niente a che fare con casi di successo conseguiti a poco più di un centinaio di chilometri dal capoluogo ligure: ossia quelle cinquemila imprese innovative attivate da un’abile gestione delle fertilizzazioni incrociate nel distretto scientifico di Nizza-Sophie Antipolis. Tendenze ampiamente confermate dal dato nazionale, con l’Italia che stenta a tenere il passo dell’innovazione tecnologica europea. A tale proposito le statistiche parlano chiaro: al 2010 le spese nazionali in R&S ammontano all’1,26% del PIL, a fronte di una media europea del 2,01% (con punte che arrivano al 3,9% in Finlandia); per ogni milione di abitanti i nostri brevetti si aggirano sui 78, a fronte dei 111,6 del continente.

Parlandone con i diretti interessati i colli di bottiglia saltano fuori: l’afasia delle comunità scientifiche, in assenza di intermediari che ne accompagnino l’interlocuzione con il mondo industriale, l’approccio delle imprese all’opportunità tecnologica tendente alla questua (interessate a incassare sussidi pubblici, più che alle possibili partnership innovative). Difatti non emergono effettive specializzazioni di territorio fondate sull’opportunità tecnologica. Anche perché non ci sono decisori pubblici in grado di operare quelle scelte di indirizzo che innescano strategie.

D’altro canto le nostre classi dirigenti, che pure amano atteggiarsi a modernizzatrici, l’affare che in pratica meglio capiscono è quello tradizionale del cemento e mattone: la roba, come un mastro Don Gesualdo qualunque.
Semmai il problema è non darlo a vedere.

Nel Paese della Commedia dell’Arte anche lo sviluppo tecnologico si rivela una messa in scena.

Peccato, dato che potrebbe essere una leva fondamentale al servizio di politiche industriali (ad oggi inesistenti) per uscire dal baratro in cui continuiamo a precipitare.