Tutta mia la città. Forse è questa la bella sensazione che hanno provato le centinaia di migliaia di persone arrivate ieri nella capitale da ogni dove d’Italia. Perché c’erano loro, con i canti, gli slogan, i sorrisi, i balli, le parole d’ordine, i “cordoni”, i megafoni. E intorno il silenzio di una città serena, anche “complice”. Non diremo che è stata una bellissima giornata di sole, né che Roma ha ricevuto come se niente fosse un popolo immenso. Questo lo sanno già tutti perché persino le tv più filo-renziane hanno dovuto arrendersi di fronte all’evidenza dei fatti: una manifestazione sindacale, di ragazze e di nonni, di studenti e di precari, di lavoratori e di militanti, di immigrati e partite Iva che ha invaso gioiosamente, pacificamente le strade romane.

Vediamo invece che cosa la piazza della Cgil ha messo davanti agli occhi di tutti gli italiani.

In primo luogo la ricchezza della rappresentanza. Mille realtà e infiniti volti del lavoro raccontati dai cartelli delle categorie, a indicare la presenza del sindacato anche dove non te lo saresti aspettato (guardie gialle, penitenziarie…). Una conferma, confortante, del radicamento sociale del sindacato contro il luogo comune che lo dipinge come la casta dei burocrati.

Perché si è mobilitato il lavoro vivo. Vero. E se doveva essere una prova di forza, l’esito di questo 25 ottobre ci dice che è pienamente riuscita. Nonostante le critiche, talvolta giustificate, di vetero sindacalismo, di incapacità di includere i più giovani e i meno garantiti, di non avere gli strumenti per coagulare intorno a se un’opinione forte e in grado di oltrepassare gli steccati sindacali, ebbene ieri la Cgil ha dimostrato che questi limiti non hanno modificato i sentimenti più profondi e più forti del sindacato italiano.

Ma quella breve distanza che divide Roma da Firenze, ieri è diventata abissale. Perché mentre Renzi rivendicava a sé e alla Leopolda la forza di creare lavoro (e stendiamo un velo su chi ha fatto da contorno alla corte del giovane premier che ama gli yesman), ieri a piazza San Giovanni c’era la gente che lavora sul serio, e tanta altra gente che il lavoro lo vorrebbe concretamente, non solo nei programmi e nelle promesse. Perché mentre a Firenze lo sponsor (e finanziatore) di Renzi, il finanziere Serra, sosteneva che andrebbe vietato lo sciopero nel pubblico impiego (ma non si vergogna un po’ il segretario del partito democratico – ripeto: partito democratico – ad avere simili supporter?), qui a Roma sfilavano donne e uomini che reclamavano la tutela di un diritto costituzionale.

E’ possibile che tra i sostenitori (compresi parlamentari e ministri) molti non condividano i valori rappresentati ieri da quella massa enorme di cittadini italiani. Ed è altrettanto probabile che il distacco tra i due mondi (assai poco virtuale) non venga colmato, se non in parte, da quei politici della sinistra Pd che a fatica cercano di tamponare la deriva liberista della più grande forza di centrosinistra.

Ora si va verso lo sciopero generale. Invocato dalla piazza che ha alzato il volume dell’applausometro quando la segretaria Camusso lo ha evocato, insieme alla richiesta di una patrimoniale per gli investimenti pubblici.

E di fronte all’abbraccio tra Camusso e Landini, di fronte al “partito di lotta” che unisce tutta la sinistra del lavoro, Renzi commetterebbe un grave errore se pensasse di cavarsela con un twitter o una battuta. Farebbe meglio a prendere atto che ieri, improvvisamente – ma non troppo – la parola sinistra, irrisa e desueta, ha ripreso vita e si è fatta largo in modo prorompente riconquistando lo spazio sociale, politico, culturale che qualcuno vorrebbe negarle.

Possiamo sbagliarci, ma vedendo il corteo ci siamo convinti che una sinistra di popolo, consapevole, fortificata dalla capacità di resistere alla durissima prova della crisi, ha ripreso pienamente il suo diritto di cittadinanza.