Angelino Alfano, comandante senza più uno straccio d’autorità, prova a fermare la tempesta che scuote il suo partito in dissoluzione prima che sia troppo tardi: «Resteremo in questo governo finché si faranno le cose che diciamo noi». E’ una risposta diretta a Nunzia Di Girolamo – ancora per poco capogruppo Ncd alla Camera, in attesa di essere sostituita dal defenestrato Maurizio Lupi – che aveva riproposto il passaggio all’appoggio esterno. Non si ferma qui l’ex ministra dell’agricoltura. Chiede al coordinatore Gaetano Quagliariello di convocare «un’assemblea straordinaria del partito: dobbiamo chiarire chi siamo e soprattutto dove stiamo andando». E’ una sfida diretta rivolta ad Alfano. In un’assemblea di quel tipo, inevitabilmente finirebbero sul banco degli accusati lui e la sua arrendevolezza nei confronti di Renzi.

Nessuno va dietro alla focosa campana, ufficialmente. Lei si sa che sta già con un piede e mezzo dentro la casa madre azzurra e non è questo che hanno in mente gli altri ufficiali colmi di dubbi e risentimenti, come Fabrizio Cicchitto. Anche lui, probabilmente, sa che la scommessa Ncd è persa. Ma sa anche che le uscite vanno preparate a modo. Dunque per il momento finge di poter tenere insieme «l’impegno costruttivo per il successo del governo» e il rifiuto «della subalternità a Renzi e al suo progetto di costruzione di un nuovo sistema di potere». Roba che quadrare il cerchio al confronto è un giochetto.

Nella babele del partito mai nato non ci sono solo quelli che guardano a destra. Non manca chi pensa che, essendo ormai il Pd a tutti gli effetti centrista, ritrovarsi sotto quelle bandiere non sarebbe poi così male. Cose che si pensano ma non si dicono e anzi vanno smentite con sdegno, come fa la ministra Beatrice Lorenzin, che tra gli Ncd con anima Pd non ha rivali. Solo voci create per destabilizzarci, fa sapere. Però in forma anonima e indiretta, le classiche «fonti». Non si sa mai ed è meglio non scoprirsi troppo.

Il problema però non sono gli ufficiali: è la truppa. Al Senato scalpitano i calabresi, massa di manovra fondamentale, e i ciellini, altrettanto pesanti. Se e soprattutto quando daranno l’addio alla barca che affonda lo decideranno le circostanze, ma di certo non rappresentano già più, nelle commissioni e nei singoli voti parlamentari, un bastione sicuro.

Le vittorie di Renzi sono indubbie ma costano assai care. Con la nomina di Sergio Mattarella ha perso la rete di sicurezza rappresentata da Forza Italia. Col Jobs Act ha creato un livore insanabile nella minoranza Pd, di cui ieri si sono visti i primi effetti. Con la cacciata di Maurizio Lupi dal ministero delle infrastrutture ha reso l’Ncd un alleato tra i più infidi. Il ricatto delle elezioni anticipate vale sino a un certo punto, perché sino a che non sarà approvata ed entrerà in vigore la nuova legge elettorale, il ricorso alle urne lo costringerebbe al mettersi nelle mani di Silvio Berlusconi, chiamandolo al governo.

Ma Renzi è uomo di tattica non di strategia. Dunque ha già iniziato a guardarsi attorno a palazzo Madama: dove di senatori vaganti, soprattutto tra gli ex M5S, ce ne sono tanti.