Berlino 1977. La Markos Tanz Company di danza di Madame Blanc (Tilda Swinton, l’icona di Guadagnino qui in un triplice ruolo che non spoileriamo) è l’obiettivo più ambito dalle aspiranti danzatrici, un «metodo» che nella performance rompe radicalmente lo schema del «classico» nella tradizione di un movimento che già agli inizi del 900 ha cominciato a usare il corpo come strumento di deflagrazione della società. La storia inizia però prima, da qualche parte in America, in una comunità mennonita dove vive Susie Bannion (Dakota Johnson), la madre della ragazza sta morendo, le figlie pregano, il mondo lì dentro sembra essersi fermato a secoli fa.

La ritroviamo arrivare un po’ spaesata, ragazza americana in Europa per la prima volta, nella sede della compagnia per un’audizione, vuole studiare lì, la prendono. Tra quelle pareti però c’è qualcosa di strano, o è forse il suo sguardo che ci restituisce un mistero?
Le «analogie» tra Suspiria di Luca Guadagnino, primo (magnifico) film italiano dei tre nel concorso veneziano, e l’«originale» di Dario Argento si fermano forse al titolo, quello del regista di Call Me by Your Name non è un remake di un «classico» (eccentrico) dell’horror uscito nel ’77, l’anno della rivolta, ma una reintrepretazione che attraversa il nostro contemporaneo. Sballato col rosso lisergico di Tovoli e la musica dei Goblin il film di Argento vive dentro il suo tempo, nelle ossessioni dell’autore che sceglie – e non a caso – come ispirazione il romanzo del lucidissimo «mangiatore d’oppio» Thomas De Quincey – Suspiria De Profundis – ( leggere le sue Confessioni), ovvero esoterismo e rivoluzione.

Guadagnino è nato in quegli anni, la sua è una passione cinefila, forse qualcosa di più, un gesto d’amore per un film e un autore che definisce per lui «fondamentale» – «Ho paura di stalkerare i registi che amo» dice di sé – come altri, pensiamo a Jonathan Demme o a De Palma, nella sua formazione di cineasta/appassionato consumatore di immagini. Racconta che Suspiria l’ha visto da ragazzino e la scommessa era ricreare il senso di paura «estrema» provata durante quella prima visione.
Ma il suo universo poetico è un altro – de Quincey rivisto da Peter Whithead – Terrorism Considered One the Fine Arts, citato in Le livre d’image di Godard – e di quei tempi c’è il riflesso, la narrazione e la Storia dalle primissime sequenze che quasi risucchiano lo spettatore dentro allo schermo: la macchina da presa accarezza gli oggetti della casa americana di Susie, si muove tra i sussurri sepolti fino al capezzale della madre morente. Una santa? La frase iniziale ci avverte che non è così, la Madre è una figura complessa, ambigua, stratificata. La Madre è l’inconscio archetipo dell’immaginario dell’umanità.

E qui, nella relazione (e nel conflitto) tra «reale» e inconscio interno e esterno, memoria e Storia, corpo e anima dispiega la sua trama questo Suspiria in cui si combinano la Germania del ’77, nei giorni della trattativa tra la Raf, la Rote Armee Fraktion, e il governo per la liberazione di Hans Martin Schleyer, presidente della confederazione dell’industria tedesco occidentale (e membro del partito nazista), la scomparsa di una danzatrice della compagnia, che è forse una terrorista, e la lotta segreta, in quel mondo parallelo di forze oscure, tra le streghe, le tre Madri, Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimarum, antichissime e malvagie che coi loro poteri manipolano gli eventi del mondo.

L’audio degli archivi si alterna alla colonna sonora potente di Thom Yorke. Il clima è plumbeo, da incubo, il mondo si sdoppia in una realtà underground che respira nel montaggio del complice di sempre Walter Fasano.
Più Fassbinder (Germania in autunno) o Straub-Huillet non riconciliati che Argento – Guadagnino non utilizza come lente la nostalgia degli anni Settanta cerca piuttosto (e senza soccombere alla fascinazione) di ritrovare l’energia destabilizzante attraverso l’arte, l’esperienza politica e poetica di una sovversione dei linguaggi, generi codici che inietta nel suo cinema, nell’immagine elegante, raffinata che non ha bisogno di rivendicare il virtuosismo. Il corpo performativo, grande protagonista teorico di questo film a partire dalle esperienze artistiche dell’epoca è terreno di scontro, viscere, fluidi, ossa spezzate, «decostruzione» di generi, un corpo posseduto da una forza che è la sovversione di linguaggi e generi e codici, è segno di una lotta disperata e estrema, arma ultima contro l’oppressione – erano le creazioni di Gina Pane o Valia Expert, era il corpo di Holger Meins simbolo di una generazione che chiedeva di confrontarsi col nazismo.
Nell’inconscio si immerge l’anziano psicanalista fuggito allo sterminio che prova disperatamente di opporsi al potere delle streghe, alla cancellazione della memoria: da lui troviamo la giovane danzatrice che sparirà perseguitata da visioni terribili, le stesse che sconvolgono il sogno di Susie. La moglie dell’uomo è morta a in un campo di concentramento, nella Germania divisa dal Muro lui continua a cercarla, ma i funzionari che si trova davanti sono gli stessi che aveva già visto in quegli anni. Possibile?
Il grande rimosso tedesco o forse la rimozione messa in atto dalla Storia nelle sue versioni ufficiali, lo stesso scontro che si consuma tra le forze oscure, tra le danzatrice, la maestra e l’allieva, motivo questo che ritorna nel cinema di Guadagnino (pensiamo a Bigger Splash, stesso duetto Swinton/Johnson) espressione di opposte visioni della forma del mondo.

Lui, Guadagnino, che nella sua filmografia ha un film (bellissimo) che si chiama Inconscio Italiano, tra i pochi a dare un’evidenza al colonialismo italico, che se si fosse studiato a scuola molti persino i razzisti di oggi avrebbero una diversa prospettiva, è più Madame Blanc che Susie. Il suo cinema dissemina, suggerisce, lavora in profondità, e nel caos delle streghe, in quel tempo oggi già lontano di cui nel presente rimangono solo tracce invisibili, sceglie la memoria contro l’oblio del presente, il cinema come invenzione, il gesto di filmare come resistenza alla formattazione dell’immaginario.