Nati Liberi. Quei vecchi ragazzi del Banco del Mutuo Soccorso, che si trovarono tanto tempo fa, in un cuore verde d’Italia affacciato su Roma, al crocevia di idee, fermenti, musiche, poesia, cinema, teatro che tutti insieme rendono formidabili quegli anni. Continuamente immiseriti nella squallida vulgata degli «anni di piombo». Il Banco c’era, e c’è ancora, mezzo secolo dopo. Anche se Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese non sono più sui palchi con chi è rimasto. A cominciare da Vittorio Nocenzi, da sempre principale testa musicale del Banco. Che si è raccontato e tutto ha narrato del Banco al giornalista e critico Francesco Villari, specialista di musiche «non accademiche» del secolo breve. Il tutto è confluito in Nati liberi, da poco uscito per Tsunami edizioni, occasione per una chiacchierata con Vittorio Nocenzi, anima indomita dello storico gruppo.

Il Banco sta dimostrando che è esso stesso «un’idea che non puoi fermare», riprendendo un vostro verso. Che effetto ti fa, alla luce del fatto che c’è una «seconda generazione» di compositori Nocenzi che si affaccia, quella di tuo figlio?
«Un’idea che non puoi fermare» è un verso da E mi viene da pensare, registrato in Canto di primavera, che eseguimmo dal vivo a Milano durante il concerto in onore di Demetrio Stratos. Un concerto particolarmente emozionante perché, nato per raccogliere fondi per le sue cure, si trasformò purtroppo in un concerto in suo onore visto che lui era venuto a mancare da pochi giorni. Un brano in parte anche molto autobiografico, perché parla della nostra generazione di artisti così legata a quegli ideali sociali che tanto ispiravano la nostra musica e le nostre speranze per un futuro più equo. Il destino lo ha fatto diventare ancora più autobiografico, tragicamente, perché la scomparsa di Francesco e Rodolfo ci ha imposto di fare ancora una volta le nostre scelte con chiarezza e alla luce del sole: proseguire o smetterla? Abbiamo scelto di far proseguire questa storia del Banco, proprio perché questa storia «è un’idea che non puoi fermare», ormai non appartiene più solo a noi, è condivisa da migliaia di persone che nella nostra musica hanno visto anche una parte importante della loro vita. Dopo i concerti ho incontrato migliaia di persone, e il dopo concerto è «l’incontro», quando la gente ha ancora negli occhi le immagini e la luce delle emozioni che la tua musica ha suscitato, e lo percepisci con una chiarezza folgorante. Sono questi i momenti in cui capisci che attraverso la tua musica c’è stata una comunicazione molto più profonda dell’«intrattenimento». Non credo di essere interessato a svolgere il mio lavoro di musicista al di fuori di queste convinzioni. Un lavoro artistico deve avere sempre una forte tensione etica. La scoperta della «seconda generazione di compositori Nocenzi» da una parte mi spaventa e dall’altra mi consola in modo indicibile. Ho scritto tutta la musica dell’ultimo album di inediti Transiberiana con il mio terzo figlio, Michelangelo. L’ho visto fin dal primo momento come un grande regalo del destino, una specie di indennizzo per la perdita dei miei due compagni di cammino e di vita. Fatto sta che a un certo punto Michelangelo ha iniziato a farmi sentire la musica che lui scriveva e ogni volta mi succedeva la stessa cosa: mi veniva subito voglia di metterci sopra le mani e svilupparla ulteriormente, era come se la avessi appena scritta io in prima persona. Dirai che sono i regali del Dna, ma sta di fatto che ci siamo ritrovati a scrivere a quattro mani come se lo avessimo sempre fatto.

Nel Banco sono sempre esistiti spazi «senza rete» per l’improvvisazione, come in «750.000 anni fa…». Nella nuova formazione ritrovi questa possibilità?
Certamente! La dinamica che l’improvvisazione inserisce durante un concerto ti permette di non cadere mai nella trappola della routine, soprattutto quando le tournée sono lunghe. Ogni volta che sali su un palco, la routine è la tua grande nemica, ti può tagliare le ginocchia, e allora addio emozione ed emotività della performance. Il primo ad emozionarsi deve essere l’artista che sta sul palco, altrimenti come può riuscire ad emozionare gli altri? La nuova formazione è molto pronta ad improvvisare sul palco, i cambi di scaletta che spesso propongo all’ultimo momento, invece del terror panico fanno serpeggiare fra i ragazzi la voglia di lanciarsi tutti insieme nell’improvvisare le nuove connessioni. Questa è una formazione di musicisti eccezionale, perché unisce il talento vero all’umiltà e alla disponibilità delle verifiche, dei cambiamenti. In uno degli ultimi concerti mi sono divertito da morire! Non so come sia accaduto ma mi sono ritrovato a parlare dei brani che stavo per introdurre come se fossimo stati non davanti a migliaia di persone, ma solo davanti a poche decine, magari nel nostro studio e allora, con la familiarità che lo spazio raccolto ti suggerisce, raccontavo ed esemplificavo i vari elementi musicali che componevano il brano, e ogni volta che provavo ad accennare qualche battuta della strofa al pianoforte, la band partiva al volo fino al punto che non ho potuto più accennare niente sulla tastiera, se no non smettevano più di prendere al balzo la palla e suonare quel brano! Ho iniziato a ridere fra me e me perché questo affiatamento non è solo frutto di ore ed ore di lavoro, ma è anche l’inevitabile sintonia di persone che hanno molto in comune umanamente, e questo è davvero un valore aggiunto del Banco che ci tiene legati soprattutto oggi.

Nel libro Villari sottolinea che Vittorio Nocenzi è sempre stato una persona curiosa delle cose, delle musiche, delle persone. Cosa ti incuriosisce ora, e cosa ti incuriosisce invece ancora?
Mi incuriosisce ancora quello che scriverò domani, ora mi incuriosisce come verranno le prossime registrazioni del nuovo album inedito, Orlando, che uscirà il prossimo anno per l’etichetta tedesca Inside Out.

Nel 2002, concerto del trentennale, sul palco con voi c’era Mauro Pagani. Quale rapporto hai avuto con lui, e come hai vissuto il rapporto di dualità che è sempre sbalzato fuori dalle cronache tra Banco e Pfm?
Ottimo il rapporto con Pagani, professionale quello con la Pfm. Il rapporto di dualità con la Pfm l’ho vissuto sempre inutile, perché inventato di sana pianta da tutti quelli, e sono tanti, che hanno bisogno di Bartali e Coppi, di Beatles e Rolling Stones, di Keith Emerson e Rick Wakeman. Non basta andare tutti e due in bicicletta per essere simili. Banco e Pfm sono profondamente diversi. Di loro apprezzo in particolare la capacità di marketing e di management. Con Pagani c’è sempre stata una sensibilità creativa affine, perché entrambi amiamo molto il mondo timbrico della musica etnica, la forza della creatività individuale, sempre da valorizzare, e i modelli di riferimento da prendere con le pinze.

Tra cento anni, come ti piacerebbe che fosse ricordato il Banco, in una sola frase?
Un gruppo di musicisti del XX secolo che hanno fatto musica pensando che potesse essere un modo nobile ed efficace per contribuire a migliorare il mondo.

 

FUORI I DISCHI
La storia musicale del Banco in cinque capitoli fondamentali.

Banco del Mutuo Soccorso (1972)
Dalle ceneri del primo Banco, in cui ancora non c’era la voce magnetica di Francesco Di Giacomo, nasce la formazione «classica» del Banco del Mutuo Soccorso. Questo primo disco, assieme a Storia di un minuto della Pfm, è uno degli esordi folgoranti e indimenticabili nella storia del progressive rock europeo. Si tratta del celebre «Salvadanaio»: una confezione scomoda, geniale e bellissima che riproduce appunto la terracotta per risparmiare gli spiccioli. È arrivato Francesco Di Giacomo, l’accoppiata tra il corpulento vocalist e Vittorio Nocenzi sortisce pezzi memorabili, a partire dalla suite Metamorfosi, per seguire con i richiami classici di In volo, e le fantasmagorie stranianti de Il giardino del mago.

Darwin! (1972)
Pochi mesi dopo il «Salvadanaio» appare il primo disco «concept» del Banco, brani legati tra loro da una comune cornice narrativa: qui, ovviamente, quella dell’evoluzione di Sapiens, da cui il titolo con tanto di punto esclamativo. Copertina nuovamente splendida, con un orologio antico da tasca come base, e i disegni nel quadrante, ma è la musica che mostra segni di una impressionante maturità, coniugata a testi che, in diversi punti toccano vertici di straziato lirismo (750.000 anni fa l’amore, Cento mani e cento occhi). Si parla di un passato remoto per dire e suonare dell’oggi: un classico già al momento dell’apparizione, reso perfettamente dal vivo in centinaia di concerti, un disco che non invecchierà mai.

Io sono nato libero (1973)
Questa volta il Banco si prende più tempo per incidere. L’equilibrio del gruppo va assestandosi su coordinate diverse, crescente l’apporto del chitarrista Rodolfo Maltese, che arriva dagli Homo Sapiens, bizzarra ironia della sorte, dopo un disco dedicato a Darwin. C’è stato il golpe brutale di Pinochet in Cile, la riflessione sul tema della libertà è necessaria e impellente (Canto nomade per un prigioniero politico), ne scaturisce un disco più morbido e meno prog nelle atmosfere, ma decisamente riuscito. All’interno per la prima volta Gianni Nocenzi scrive un pezzo, e che pezzo (La città sottile), e c’è poi la hit ricordata anche da un pubblico poco attento al prog rock, Non mi rompete, con la voce angelica di Di Giacomo che innesca una delle più belle cavalcate melodiche del genere. Anche in edizione speciale del 2017 in cofanetto e doppio cd, con intervista a Vittorio Nocenzi.

…di terra (1978)
Un disco coraggioso, il canto del cigno di una grande stagione del rock italiano nato su modelli anglosassoni, ma evolutosi fino a diventare, a propria volta, caposcuola per il resto del mondo. Coraggioso, perché è tutto strumentale, e con la rinuncia ad uno degli elementi di forza della band: l’inimitabile voce di Francesco. C’è un’orchestra sinfonica vera, diretta da Vittorio, non il suono sintetico degli strumenti elettronici, il tandem nella composizione dei due fratelli Nocenzi e sette composizioni che annullano, con filante eleganza, le distanze tra rock e jazz, musica classica e fusion, e perfino spunti hard rock.

Un’idea che non puoi fermare (2014)
Francesco Di Giacomo se n’è andato a cantare assieme a un coro di cherubini il 21 febbraio 2014, dopo uno schianto in macchina: a volte prepara anche una delle sue spettacolari cene, inventando nuovi testi. Gli altri gli dedicano questo meraviglioso doppio cd in cui una prima parte è un florilegio di sue interpretazioni dei brani che hanno fatto la storia del Banco, il «live» definitivo, e il secondo un tributo senza retorica in cui le sue parole sono nelle gole appassionate di Giuseppe Cederna, Giuliana De Sio, Alessandro Haber, Valerio Mastandrea, Moni Ovadia, Rocco Papaleo, Toni Servillo, Franca Valeri. Il catalogo è questo.