Nella notte tra lunedì e martedì è morto nella sua abitazione di Parigi in seguito a un attacco cardiaco il cantautore franco algerino Rachid Taha. Aveva cinquantanove anni, deteneva i galloni di artista simbolo dell’orgoglio dei migranti e teneva un disco nuovo di zecca nel cassetto da pubblicare in primavera. «Algerino per sempre, francese ogni giorno»: così aveva definito se stesso in una calorosa intervista rilasciata dieci anni fa al periodico «Jeune Afrique». Engagé dai toni all’occorrenza militanti, Taha aveva lasciato la cittadina di Sig, poco più di cinquantamila abitanti, all’età di dieci anni, quando la sua famiglia andò a cercare fortuna in Europa.

Fine anni Sessanta, Lione, il ragazzo cresce e si innamora della musica. Dirà in seguito: «Capii che era il mezzo giusto per dire quel che mi stava a cuore, a partire dalla denuncia della discriminazione quotidiana vissuta nella banlieue. Prima è arrivata la rabbia, poi le canzoni». Ti chiedono il permesso di soggiorno così tante volte al giorno che al momento di formare il tuo primo gruppo non hai dubbi: si chiamerà Carte de Séjour. Permesso di soggiorno, per l’appunto. È l’alba degli anni Ottanta, Rachid ha in testa una missione che può sembrare strampalata: fondere le suggestioni pop del raï lanciato nel mondo da Cheb Khaled con la vocazione d’assalto del combat rock della sua band preferita, The Clash.

Nel 2004 avrebbe chiuso il cerchio, incidendo Rock El Casbah, versione rock desertica del classico Rock The Casbah proprio dei Clash. L’avrebbe portata sul palco anni dopo con il chitarrista della band inglese, Mick Jones, in centinaia di concerti. Per il «Guardian», una delle migliori 50 cover di tutti i tempi.
Prima di quella catarsi era però successo molto altro. I Carte de Séjour erano esplosi nel 1986 con un brano sconvolgente per l’audience francese conservatrice, una versione al vetriolo della Douce France di Charles Trenet, che trasformava un rassicurante brano anni Quaranta in un attacco al vetriolo contro il pregiudizio razziale. I ragazzi speravano scoppiasse il caso, e così puntualmente accadde. I Carte de Séjour erano sulla bocca di tutti, avevano pubblicato un disco omonimo promettente quanto apprezzato dalla critica.

Sulla copertina del secondo, Rhorhomanie, la foto della band mostra Rachid in canotta col foulard nero al collo da imminenti scontri di piazza. Somiglia davvero a Joe Strummer, mentre i suoi compagni potrebbero essere usciti indifferentemente da una festa new wave parigina come da una discoteca di Algeri.
Dopo quelle stagioni di successi e polemiche, Taha si trasferì a Parigi. Philippe Constantin, boss della Barclay, gli affittò una camera in città e gli offrì le prime grandi chance. Lavorare con Don Was e Steve Hillage, incidere negli Stati Uniti, attraversare l’Europa in tournée.

I primi anni furono anche troppo condizionati da questa prospettiva, il dandy rocker arabo francese sembrava quasi in gabbia; ma da metà anni Novanta avrebbe ricominciato a graffiare fino a piazzare una hit memorabile, Ya Rayah, che riprendeva la canzone della leggenda algerina Dahmane El harrachi. Lo status di star internazionale sarebbe stato sancito dai due best seller Dîwan e Tékitoi, quello con Rock El Casbah; e a far cassa c’è anche 1,2,3 Soleils, con Khaled e Faudel. Rachid che canta con Brian Eno, con Patti Smith, con Robert Plant; Santana che riprende la sua Kelma, l’atto d’amore per le canzoni ascoltate durante l’infanzia in Algeria ribadito nel secondo volume di Dîwan.

Il disco più recente è Zoom, uscito nel 2013. Roba in grande: produzione di Justin Adams, con Brian Eno e Mick Jones tra gli ospiti. E quell’eterno sentirsi in bilico tra il Mediterraneo e la cultura rock anglosassone che si materializza in un video: la canzone è It’s Now Or Never, la O’ sole mio in versione Elvis Presley; la location delle riprese Napoli. Un gioco intelligente, perché Rachid Taha non ha mai smesso di giocare. Impegnato e spaccone, bohémien e ironico, attento a tutto quel che gli si muoveva intorno.
Lo scorso anno al festival Babel Med di Marsiglia si aggirava per la fiera con uno dei tanti cappelli vintage della sua collezione, una sciarpa improbabile per il mese di marzo, la barba incolta. Era il suo modo di farsi bello per ricevere il premio che il festival a ogni edizione assegna alla carriera. Difficile pensare nel 2018 a qualcosa di più attuale di una band che si chiamava «Permesso di soggiorno»; peccato che quell’urgenza fosse urlata nel 1981