«L’idea di The Dead Air Orgy è stata sviluppata qualche hanno fa, un progetto che purtroppo non si è riusciti a realizzare, ci dice Simon Vincenzi. Alcuni aspetti del progetto però hanno continuato ad affascinarmi; un qualche tipo di trasmissione dal vivo che unisca testi e immagini di diversa natura».

From The Dead Air Orgy: The Song of Silenus è un nuovo lavoro commissionato da Live Arts Week. A cosa si riferisce questo doppio titolo?

È solo dopo un po’ di tempo che stavo sviluppando il lavoro per Live Arts Week che mi sono reso conto che poteva inserirsi e avere un senso in questo nuovo scenario. Molto spesso il mio lavoro si sviluppa per lunghi periodi di tempo sotto un unico titolo comprensivo. Questo significa che non esiste una versione definitiva dell’opera, ma che lavori diversi nascono uno dall’altro e in qualche modo parlano tra di loro. The Song of Silenus dunque è un lavoro che è stato pensato e che verrà realizzato esclusivamente a Live Arts Week, ma altre edizioni di The Dead Air Orgy potranno svilupparsi in altri contesti.

Si svolgerà in un luogo molto specifico. Nella presentazione hai scritto che «lo spazio diventa una camera di risonanza del poema di Virgilio e della cosmologia erotica che lo circonda». In che modo?

Ho scelto di sviluppare il lavoro a partire dallo spazio data la particolarità del luogo in sé. Ho preso spunto da queste stanze nascoste dietro ad un negozio di vini. Ho sentito il negozio come una sorta di portale per ciò che vi avrà luogo. Faccio spesso riferimento al rituale dionisiaco, ed essendo il dio del vino mi è sembrato un buon punto di partenza. È attraverso di lui che ho scoperto il Sileno, un personaggio che prima non conoscevo ma che mi ha intrigato in quanto maestro di Dioniso e figura che possiede una profonda saggezza. Questo mi ha portato alla Sesta Egloga di Virgilio che sostanzialmente descrive il canto che Sileno è costretto ad intonare dopo essere stato legato in una grotta. Viene cantato durante la notte e descritto come un canto lanciato «fino alle stelle». In un certo senso stiamo esplorando il modo in cui la canzone ricadrà, qui, sopra il negozio, dopo tutti questi anni. Non sarà una messa in scena del canto o del poema, ma una suo eco attraverso lo spazio.
Nella tua poetica il teatro è presentato sia come un meta-apparato che ricorda se stesso e genera la propria memoria e, sia come traccia. Esplori varie tecniche e tecnologie per archiviare queste tracce che scompaiono?
Nelle mie opere i performer lavorano a partire da informazioni a cui accedono attraverso diverse tecnologie. Questo spesso implica che non siano concretamente nello spazio scenico ma in qualche altro spazio – in uno schermo da qualche parte o in un altro paese. Ciò che ha luogo nella scena è solo una versione di loro stessi. Spesso diversi performer che seguono regole differenti devono coesistere nello stesso spazio scenico; sono molto affascinato dalle collisioni che questo comporta. Il più delle volte i performer non hanno idea di come il lavoro si svilupperà e condividono l’esperienza dell’opera con il pubblico. In quel preciso momento. Sono interessato all’idea della diretta, ma quando inizi a lavorare con la tecnologia digitale questa non esiste veramente. In questo lavoro il live stream non può essere realmente in diretta, poiché ciò che si vede nello schermo ha sempre un ritardo. Quello che speriamo di realizzare in questo lavoro è di trasmettere il ritardo del ritardo e l’eco che viene a crearsi.

Il capitolo che Joe Kelleher ha dedicato al tuo lavoro nel libro «The Illuminated Theatre. Studies on the Suffering of images» ha un titolo significativo: «Is there anybody there?» Parlando di memoria e oblio, qual’è la tua idea di tempo e di presenza? di corpo e voce?

Poiché in passato questi lavori non avevano mai il controllo sulle immagini che si venivano a creare, mi interessava cercare di fissare questa esperienza attraverso il linguaggio – soprattutto per l’impossibilità del linguaggio di poterlo fare. Un’opera teatrale che abbiamo realizzato nel 2003 poteva essere fruita solo per telefono: dopo aver digitato il numero sentivi la registrazione della voce della performer e poetessa Fiona Templeton, che cercava di descrivere ciò che vedeva in teatro di fronte a sé – ma interrogandosi continuamente se ci fosse effettivamente qualcuno ad ascoltare all’altro capo del telefono. In The Song of Silenus sto lavorando con Kath Duggan ad una modalità per farle tradurre un linguaggio che le viene fornito da altre fonti live che avvengono in contemporanea, oltre la nostra. Il risultato è una sorta di glossolalia, un parlare in altre lingue, che non possiamo comprendere ma che probabilmente ha senso, un senso che va però ricercato. Fino ad ora, per questo progetto abbiamo parlato soprattutto di annientamento piuttosto che oblio. C’è una violenza insita nella parola che sembra avere un legame con lo stato di ubriachezza del Sileno e con ciò che è accaduto ad Arcadia fuori dalla caverna.

Anche con il tuo progetto «operationinfinity.org» stai dando forma a «A Fugue State of Theatre On the Internet». Hai sviluppato un’estetica della crisi?

Con Operation Infinity e operationinfinity.org la crisi era molto consapevole e deliberata. Una celebrazione in un certo senso. Era una guerra alla realtà che si auto-divorava, che forse non esisteva nemmeno o potremmo essere stati costretti a dimenticare che sia avvenuta! Sviluppando questo progetto, sembra invece emergere un tono differente in The Dead Air Orgy, che potrebbe non avere nemmeno coscienza di sè. È più silenziosa, più bestiale e probabilmente ha maggiore paura di perdere se stessa.