«A prima vista non parrebbe, ma in questo momento a L’Aquila ci sono duemila cantieri aperti». È la ricostruzione invisibile, quella che svela ai miei occhi il segretario generale della Cgil Umberto Trasatti davanti a un caffè nel bar del centro sociale 3 e 32, un edificio delle cosiddette CaseMatte, l’ex ospedale psichiatrico aquilano, abbandonato e occupato da un gruppo di attivisti dopo il terremoto del 2009. Con questa cifra nella mente, verrà spontaneo prestare orecchio a ogni rumor di ruspa, rombo di camion o di martello pneumatico. «Non guardare solo al centro storico ma a tutta la città», consiglia. Se la “zona rossa” appare come congelata, in effetti tutt’attorno è un fiorire di lavori in corso: singole abitazioni ricostruite ex novo, complessi di palazzi in via di ristrutturazione. L’Aquila prova a ridarsi un volto dopo il terribile sisma e quello che è venuto dopo. Si fa fatica a comprendere il disegno complessivo, però a differenza che nei borghi dimenticati sotto il Gran Sasso e a San Gregorio dove si riaggiusta solo «la chiesa di Putin», qui è evidente che qualcosa si sta muovendo.
Ma non è tutto oro quel che luccica. Se il governo non fa qualcosa, sostiene il segretario della Cgil, nel giro di pochi mesi non ci saranno più soldi per fare alcunché. Il problema è che i 985 milioni di fondi Cipe destinati a L’Aquila sono praticamente finiti, nella legge di stabilità approvata la scorsa notte ci sono 600 milioni «freschi», come li definisce la senatrice aquilana Stefania Pezzopane, e sono meglio di niente visto che fino al giorno prima la cifra stanziata era pari a uno zero tondo tondo. La senatrice Pezzopane ha forse ragione a sostenere che non si poteva far di meglio, «anche per il sopraggiungere di nuove emergenze come quella in Sardegna», che «la coperta è corta» e in ogni modo «così la ricostruzione non si ferma». Però, per dirla meno in politichese con Trasatti, pur ammettendo che si tratta di una cifra aggiuntiva e spendibile immediatamente, e non di una semplice anticipazione di fondi già stanziati per i prossimi anni, come qualcuno sospetta, si tratta di «una cifra ridicola». Basta fare un po’ di conti: «Con il concorsone della legge Barca sono state assunte trecento persone che lavorano a tempo pieno alla ricostruzione, per cui ora siamo in grado di approvare progetti per centodieci milioni di euro al mese, più altri 50 mensili per i comuni del cratere. Si calcola che solo entro fine anno ne verranno approvati per 900 milioni. A questi vanno aggiunti 300 milioni che servono per rifinanziare i cantieri già aperti». Fanno già un miliardo e 200 mila euro, la cifra complessiva stanziata dal governo lo scorso luglio per i prossimi sei anni, al netto dei 600 milioni della legge di stabilità. Che a questo punto non serviranno neppure ad arrivare alla fine dell’anno venturo: «Per rispettare il cronoprogramma approvato all’unanimità dal Comune, che prevede il completamento dei lavori entro il 2019, solo per il 2014 ci vorrebbero altri tre milioni di euro». Al ritmo fissato dallo stanziamento approvato ieri, si arriverà invece, lemme lemme, fino al 2035. Dopo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, L’Aquila è destinata a diventare un altro emblema della perenne emergenza italiana?
La questione economica, in periodi di magra come questi, è di non poco conto, e qui all’Aquila presenta aspetti paradossali. Se n’è accorto anche il sindaco Massimo Cialente, anch’egli del Pd, che sul suo profilo Facebook ha sostenuto di essere «molto preoccupato». «Nei rarissimi momenti che posso ritagliarmi, cerco di girare un po’ sia in centro che in periferia, per controllare lo stato dei cantieri: demolizioni, lavori, etc. In alcuni casi, vedendo il cartello e leggendo la data di inizio e fine lavori, capisco che quest’ultima molto probabilmente non verrà rispettata», ha scritto Cialente. «Vedo cantieri di ricostruzione con due, massimo tre lavoratori. Chiamo il direttore dei lavori che mi dice, spesso, che nonostante i solleciti l’impresa non cammina. Gratta gratta emerge che essa ha difficoltà economiche. Vi sono ditte fallite, che hanno lasciato i lavori a metà. Altre che arrancano stancamente. Noi ci siamo battuti affinché il singolo proprietario avesse la possibilità di scegliersi progettista ed impresa. Sapete che l’alternativa era quella di dividere la città in frammenti assegnandole a grandi gruppi. Spesso mi vengono cittadini, l’ultima, disperata, venerdì pomeriggio, che non sanno nulla più della propria pratica o del destino dei loro lavori. Quasi espropriati. Ricordo a tutti che gli amministratori sono scelti e votati dai proprietari, e che ciò che fanno, lo fanno in nome di questi. (…) Altra cosa che mi preoccupa sono le notizie che mi arrivano da molti lavoratori, di imprese, spesso di subappalto, che non pagano gli stipendi. Perché? Perché hanno arretrati di più di tre mesi? Sono forse imprese che arrivano qui già alla canna del gas? Ed allora quale è la qualità del lavoro che fanno? Quali garanzie ci danno? Stanno vigilando i direttori dei lavori su questi aspetti? Ed i sindacati?»
Alla fin dei conti, tra lentezze amministrative, soldi che non bastano, amministratori di condominio che non si accontentano di vedersi omaggiati del due per cento sui lavori, imprenditori avventurieri prima ancora che malavitosi, il rientro a casa per le oltre 15 mila persone che vivono nelle abitazioni del progetto Case o dei Map non è esattamente dietro l’angolo.
Il paradosso, dunque, è che da un lato ci si lamenta, a ragione, delle poche risorse investite dal governo, e dall’altro quelle poche che ci sono spesso vengono gestite male, si impantanano in pastoie burocratiche o, peggio, giacciono in una terra di nessuno. Come i due miliardi stanziati dall’Inail per recuperare il centro storico, creare un nuovo campus universitario e contribuire a restaurare i beni culturali, finiti in un gorgo burocratico e mai utilizzati. Se poi, come sostiene l’eurodeputato danese Soren Sondengaard, l’Italia dovesse essere condannata, in virtù di un elenco di mancanze che in qualsiasi paese europeo provocherebbero una riunione immediata del consiglio dei ministri per affrontare la questione, a restituire 350 milioni di fondi comunitari spesi per fini diversi da quelli per i quali erano stati ricevuti, sarebbe la ciliegina sulla torta di un disastro generato, più che dalle forze insondabili della terra, da quelle non meno distruttrici di chi la abita.