André Wood, autore di alcuni dei pochi film cileni distribuiti in Italia con successo («Historia de fútbol», «Machuca»,) prende tra le braccia un personaggio amato anche oltre i confini come Violeta Parra, dalla vita come una poesia con un punto finale e la accompagna in «Violeta se fue a los cielos» dall’infanzia agli snodi imprevedibili della sua vita. I tormenti, le sue furie, l’indipendenza totale, prendono forma sullo schermo con aspre tonalità e l’adesione totale al personaggio dell’interprete Francisca Gavilan. Unica eredità lasciatagli dal padre, professore alcolizzato, una vecchia chitarra. Con alcuni dei suoi fratelli organizza un gruppo di artisti itineranti che suonano e cantano folklore, canzoni messicane e cuecas locali, poi procederà da sola, andando a cercare la maestra che le insegni a cantare, ma arriva troppo tardi, ma comincia a sgorgare dal profondo del suo minutissimo corpo una tempesta vocale. Viaggia per il paese («El viaje infinito») dal nord al sud da cui proveniva, vicino Chillan non lontano dal luogo di nascita di Neruda, con il registratore per raccogliere testimonianze dei vecchi contadini e canzoni popolari. È stato il fratello Nicanor, grande poeta, il primo a parlare del saccheggio della natura, autore di «Ecopoemas», a spingerla alla ricerca, approfondisce le tradizioni, le lotte contadine e del proletariato urbano, fonda una casa discografica con Victor Jara. Nel film c’è solo un accenno alla sua famiglia così numerosa, tanti fratelli e figli come Angel e Isabel e nipoti che abbiamo visto nel film di Pablo Larrain «No» a fare parte del gruppo di artisti mobilitati per il referendum contro Pinochet.

Il film la segue sola nei suoi viaggi in Europa, ospite del festival della gioventù a Varsavia, poi in Urss. Due anni senza tornare in Cile e durante la sua assenza muore la figlia più piccola. Al suo ritorno fonda una tenda d’artisti (la carpa della Reina) appena fuori Santiago dove offrire ospitalità alle esibizioni più diverse, centro culturale che non funziona troppo bene finanziariamente, finché non viene a trovarla l’antropologo svizzero Favré che segue nuovamente in Europa, a cui dedica centinaia di canzoni d’amore e che con il suo abbandono sarà infine la causa della sua depressione finale Intanto insieme a Parigi si mette a comporre quadri di juta esprimendo un’altra forma di poesia (la madre era sarta) e sarà la prima cilena ad esporre al Louvre nella sezione delle arti decorative. Ma lo svizzero se ne va in Bolivia, stanco di essere messo in secodo piano e lì troverà una ragazza giovane che sposerà.

«Gracias a la vida», la sua canzone forse più famosa, cantata poi anche da Joan baez e dagli Inti Illimani che interpretarono tante altre sue canzoni con la figlia Isabel («Volver a los 17», «Rin dl angelito»…) è stato il suo ultimo regalo prima di morire inaspettatamente («si fa ma non se ne parla» avverte in una scena del film), una morte che ancora una volta è statat spiazzante. Nicanor Parra le dedica una poesia (bailarina del agua trasparente, Arbol lleno de pajaros cantores, Viola doliente.

Scomparsa nel ’67 non ha conosciuto la dittatura (i figli hanno vissuto esuli anche in Italia, ma la sua lotta rivoluzionaria si è fatta sempre più decisa. «Il suo lavoro era un gesto politico» ha detto il figlio Angel che è stato suo assistente e la accompagnava fin da piccolo nei suoi viaggi di studio lungo il paese, raccontato nel film in scene che sanno dire tutto della sua personalità indipendente. Nelle sue canzoni, un cantare rivoluzionario, parla delle lotte sociali, della miseria diffusa. E la sua voce («come se ti stessero sgozzando» scrive nella sua poesia Nicanor Parra) è riprodotta dall’attrice Francisca Gavillan che mai aveva più cantato da quando era bambina ed ha anche imparato a suonare la chitarra a quattro corde. Era stata l’interprete del durissimo «Monos con navaja» di Stanley Gonczanski (2000), tanto teatro e tanta tv. Dopo l’anteprima al festival di Pesaro il film sarà nelle sale dal 4 luglio