Il campus non è più largo, via al maccartismo anti-kefiah
Stati uniti Riaprono gli atenei, con nuove regole ancora più repressive. Tendopoli vietate, parole proibite, cortei limitati, va forte il coprifuoco: c’era una volta la libera università
Stati uniti Riaprono gli atenei, con nuove regole ancora più repressive. Tendopoli vietate, parole proibite, cortei limitati, va forte il coprifuoco: c’era una volta la libera università
L’inizio dell’anno accademico americano è scaglionato fra i primi e la fine di settembre, a seconda se si tratta di istituzioni pubbliche o private a sistema trimestrale o semestrale, ma ovunque le lezioni sono riprese, o stanno per riprendere, col bombardamento di Gaza ancora in corso.
L’anno scorso gli atenei si sono convertiti in “fronte interno” del conflitto con occupazioni e proteste contro finanziamenti e forniture di armi americane al governo Netanhyahu in centinaia di università.
In molti atenei le manifestazioni sono state represse con la violenza. Violenza invariabilmente iniziata dalle forze dell’ordine.
In tutto il paese oltre 3000 studenti sono stati arrestati e altre centinaia sono stati sospesi o colpiti da altre sanzioni. Con il nuovo anno si profila una semmai manovra più coordinata di repressione preventiva.
Molte istituzioni hanno adottato regolamenti che mirano a “contenere” il dissenso con restrizioni alla libertà di manifestare. Alla Case Western Reserve di Cleveland, ad esempio, ogni protesta dovrà essere preventivamente approvata dall’amministrazione, alla Rutgers in New Jersey eventuali contestatori dovranno munirsi di autorizzazione ufficiale.
Molto in auge poi sono i coprifuoco. Alla Indiana University vige ora il divieto di “attività espressive” dalle 23 alle 6, all’Ohio State eventuali proteste non possono continuare dopo le 22, alla Northwestern sono proibite prima delle 15 mentre alla Rutgers sono autorizzate unicamente dalle 9 alle 16, altri hanno imposto il limite di due ore ad ogni manifestazione.
Nel mirino dei nuovi regolamenti soprattutto vi sono le occupazioni e gli accampamenti che in dozzine di campus vengono ora espressamente vietati. Nel campus della Indiana University si sono già registrati nove fermi di studenti e docenti per aver trasgredito il coprifuoco.
Le università i cui corsi di storia ed educazione civica elogiano la nonviolenza di Martin Luther King, ammettono sempre meno che le stesse tattiche vengano effettivamente impiegate da studenti o docenti.
LA RAFFICA di nuovi regolamenti è stata condannata dal coordinamento Students for Justice in Palestine (Sjp), e la American Civil Liberties Union (Aclu) ha sporto querela contro l’università dell’Indiana per violazione del diritto costituzionale di espressione.
Vi è effettivamente la sensazione che la raffica di “regolamenti” si inserisca in un quadro più ampio di normalizzazione della censura, che in alcuni casi comprende nuovi divieti di indossare mascherine e perfino la kefiah.
Domenica scorsa a Long Island un uomo è stato arrestato per aver indossato la tradizionale bandana palestinese durante una protesta contro una vendita immobiliare all’interno di una sinagoga. Si tratta di eventi commerciali in cui agenti vendono case e immobili in Israele alla diaspora ebraica in nord America. Nell’ultimo anno si sono registrati diversi picchetti per protestare contro la vendita di immobili nella Cisgiordania occupata.
A giugno una di queste contestazioni a Los Angeles aveva provocato una violenta contromanifestazione filo israeliana. Vi aveva fatto seguito la proposta di un’ordinanza municipale per vietare di manifestare vicino ad «istituzioni religiose» come misura «cautelare» predicata sulla falsa equivalenza fra solidarietà pro palestinese e “sostegno di Hamas” e anti semitismo. Anche il pretesto di molte nuove misure restrittive è «l’odio religioso» che rappresenterebbero.
Il mese scorso un giudice federale ha trovato l’università di Los Angeles (Ucla) responsabile di aver permesso una “zona di esclusione” a scapito degli studenti ebrei. La sentenza è giunta a seguito di una querela da parte di alcuni studenti che avevano accusato i contestatori di aver precluso loro la «libera circolazione» nel campus e l’accesso a biblioteche e allo spiazzo dove erano state erette le tende. Secondo la sentenza l’accampamento sarebbe inoltre stato discriminatorio ed espressione di intolleranza per aver escluso studenti di una sola religione.
In realtà al presidio avevano partecipato giovani di numerose etnie e religioni compresi molti ebrei, fra cui militanti di Jewish Voice For Peace (Jvp) e IfNotNow. I querelanti erano invece provocatori che abbiamo visto ripetutamente esigere di entrare nel campo (rigorosamente pacifico ed ecumenico) con bandiere israeliane dopo che questo era stato attaccato da militanti pro israeliani – e documentare la richiesta, presumibilmente in vista dell’azione legale.
L’ALTRA ACCUSA pretestuosa è che le proteste contribuiscono ad un clima di generale intimidazione del corpo studentesco ebreo. Su questa base l’università di New York (Nyu) ha inserito “sionismo” e “sionista” in un elenco di espressioni considerate ingiuriose e discriminatorie.
La redazione consiglia:
Columbia occupata, studenti minacciati di espulsioneLe regole si allineano con i teoremi articolati dai membri della commissione parlamentare sul antisemitismo che lo scorso inverno ha convocato numerosi amministratori universitari a testimoniare sulle misure implementate contro i manifestanti. In seguito ai loro interrogatori, le rettrici di Harvard e U Penn hanno perso il loro posto perché ritenute non sufficientemente severe.
L’esistenza di liste di parole proibite sugli atenei americani, è altresì emblematica del clima che si respira da un anno a questa parte e del gelo che induce simposi e conferenze accademiche a “scoraggiare” la discussione della questione di Gaza.
Gli studenti contro la guerra di Israele a Gaza hanno già deturpato una statua alla Columbia, vandalizzato un edificio alla Cornell, bloccato l’accesso al Pomona CollegeThe Atlantic
E LA SOPPRESSIONE non è limitata alle università. È della scorsa settimana la notizia del licenziamento di quattro lavoratori del Noguchi Museum di New York per avere esibito kefiah sul lavoro. A maggio l’ospedale Langone, sempre a New York, ha licenziato una infermiera che aveva definito «genocidio» l’operazione israeliana nella Striscia. Sempre la scorsa settimana il prestigioso centro culturale della Upper East Side, 92NY, ha rimosso un impiegato per non aver rispettato la recente divieto di «opinioni politiche» espresse sul lavoro (anche qui, ovviamente, dietro la dicitura generica si cela il riferimento alle opinioni pro palestinesi).
Tutto questo nelle istituzioni che sembrerebbero più preposte a sostenere la libertà di parola, pensiero ed espressione che soprattutto negli Usa (paese che garantisce questo diritto anche a manifestazioni naziste) sarebbe un assioma.
A queste si aggiunge la censura che, denuncia Sjp, colpisce gli account di solidarietà palestinese sulle piattaforme Meta (Facebook, Threads e Instagram) dove quei contenuti vengono oscurati o sono soggetti a shadow banning.
Vi sono dunque buone ragioni per evocare il periodo più buio delle persecuzioni ideologiche degli anni ‘50. Il nuovo maccartismo (diffuso anche a Hollywood, come recentemente denunciato anche da una lettera aperta di 700 operatori del cinema) è avvalorato dalla politica bipartisan e da una produzione giornalistica ed intellettuale come quella esemplificata dall’articolo apparso questa settimana su The Atlantic, intitolato “Gli accampamenti universitari non sono etici”.
Il saggio, dopo aver distinto la disubbidienza civile di una volta (giustificata) da quella odierna (distruttiva), riparte dalla fallacia del «timore» che le proteste possono indurre in studenti inermi, per concludere acrobaticamente che la mancanza etica non stia nel perpetrare la strage ma nel provocare disagi contestandola.
«The more you try to silence us, the louder we will be!» (“Più cercate di zittirci, più forte grideremo!”)Studenti dell'Ucla
LA RISPOSTA l’hanno data giovedì gli studenti che, proprio a Ucla, hanno interrotto il consiglio di amministrazione che si accingeva a stanziare fondi per l’acquisto di nuove forniture anti-protesta (compresi nuovi proiettili non-letali, presentati come «soluzione ideale sia per incapacitare individui o controllare folle»). Il loro slogan, prima di essere sgomberati: «The more you try to silence us, the louder we will be!» (“Più cercate di zittirci, più forte grideremo!”)
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