Centoventi sudanesi, tra rifugiati e richiedenti asilo, attualmente residenti al centro di accoglienza di via Scorticabove a Roma, erano stati invitati qualche giorno fa dal Comune a trovare un’altra sistemazione entro la fine del mese di maggio. Ovvero entro la fine dell’erogazione del servizio fornito dall’amministrazione capitolina. Pare che ieri, poi, sia stato trovato un accordo posticipando così di due mesi il momento dell’uscita dal centro.
Ma di questa vicenda, in ogni caso, colpisce lo scarso preavviso dato agli ospiti: appena dodici giorni. La motivazione non ufficiale resa ad alcuni abitanti, sarebbe la scadenza del contratto d’affitto dello stabile. Ma se quel contratto fosse regolare, come si presume che sia, è mai possibile che al comune sia sfuggito di comunicare per tempo agli inquilini il termine della cessazione? Una comunicazione che, oltretutto, sarebbe stata opportuna in vista di una loro sistemazione alternativa, organizzata anche autonomamente. Se infatti l’avviso fosse pervenuto tre mesi prima, ciò avrebbe favorito – nelle situazioni in cui fosse stato possibile – la pianificazione di progetti individuali, come per esempio la ricerca di un’abitazione. Ed è proprio quello che potrebbe avvenire se lunedì prossimo non si procederà con la chiusura della struttura.
Sono numerose le persone residenti da anni nel centro di via Scorticabove, e che potranno sperimentare se quella fase di accoglienza monitorata ha prodotto i propri frutti. Molti di loro conoscono l’italiano e lo parlano correttamente e sono già inseriti nella società romana. Ma anche quando in possesso dei migliori requisiti non è detto che la messa a punto di una nuova dimensione, tutta tesa all’autosufficienza, sia un passaggio semplice. Ecco perché ha fatto bene il comune a prendere del tempo che speriamo venga utilizzato per incontrare singolarmente gli abitanti del centro, inquadrare la loro situazione e cercare di avviare quel processo appena descritto e che è ambito da tutti gli attori coinvolti: dal rifugiato e dalle istituzioni stesse.
La vicenda qui esposta è lo spunto, l’ennesimo, per ragionare sul sistema di accoglienza italiano e sulle sue carenze e debolezze. Una di queste, forse la principale, riguarda il fallimento, in un numero consistente di casi, di un obiettivo decisivo e cruciale: l’autonomia delle persone accolte. È solo attraverso il raggiungimento di questo scopo, e correggendo il metodo di lavoro esclusivamente improntato sull’emergenza, che l’Italia trarrà finalmente vantaggio da tutti gli investimenti – e non solo quelli economici – fatti fino a questo momento.
Oggi, per colmare questa lacuna, l’Italia ha una possibilità, offerta da due direttive europee che dovrà recepire entro luglio. Una riguarda le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale (direttiva procedure) e l’altra il sistema di accoglienza (direttiva accoglienza). Con una corretta trasposizione di quest’ultima nel nostro ordinamento si potrebbero attuare una serie di soluzioni vantaggiose non solo per chi è accolto ma anche per la società intera.
Ne riporto due: il superamento dei Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo e rifugiati) le cui dimensioni e la loro gestione hanno causato una serie di problemi, sino a ridurre in modo allarmante gli standard d’accoglienza. E il rafforzamento dell’ospitalità diffusa che dovrebbe garantire una presa in carico qualitativamente più adeguata dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Fattibile, no?