«Di fronte alle preoccupazioni e alle gravi valutazioni espresse in merito all’iniziativa del movimento Bds, ritengo necessario un approfondimento. Pertanto sospendiamo e rinviamo la disponibilità degli spazi in Campidoglio».

Così ieri Stefano Fassina, parlamentare di Sinistra Italiana e consigliere al Comune di Roma, ha cancellato l’iniziativa “Gaza: Rompiamo l’assedio”, discussione a cui avrebbe dovuto prendere parte insieme a Ann Wright, ex colonnello Usa ed ex diplomatica.

Wright si è dimessa dal governo Usa nel 2003 per protesta contro la guerra in Iraq ed è da allora impegnata nel fronte contro la guerra. Ha preso parte a sette missioni della Freedom Flotilla verso la Striscia di Gaza.

Ma a Roma il convegno (organizzato dalla campagna Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni nell’ambito dell’annuale Israeli Apartheid Week) è saltato su pressione di comunità ebraica e ambasciata israeliana. «Un evento raccapricciante», lo ha definito Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma, mentre il vice capo della missione diplomatica israeliana, Dan Haezrachy, parlava di inappropriatezza del luogo per l’evento di «un’organizzazione antisemita».

Sulla stessa linea Noemi di Segni (Unione delle comunità ebraiche italiana): «Il Bds è un catalizzatore di odio anti-israeliano e anti-ebraico. Mi auguro che la sindaca Raggi e la giunta intervengano al più presto per porre rimedio a questo increscioso incidente».

Le pressioni hanno funzionato, dall’Assemblea capitolina escono poche righe: «Verificheremo la conformità dei contenuti del dibattito».

Gli organizzatori non intendono rinunciare: «Fassina e il Campidoglio non possono sospendere la solidarietà alla Palestina – ci dicono – Confermiamo l’evento oggi alle 17».

Ne abbiamo parlato con Ann Wright. Non pare stupita, ma amareggiata: «Succede spesso, sempre con l’accusa di antisemitismo. Ma il nostro lavoro non è antisemita, è rivolto al governo israeliano».

Come giudica la sospensione dell’evento e le pressioni perché non si svolgesse?

È terribile che le pressioni del governo israeliano abbiano effetti sul consiglio comunale di Roma. Avevamo spiegato al Comune l’intenzione di parlare dell’occupazione israeliana, del blocco illegale di Gaza, delle colonie illegali. Insomma, nulla di diverso da quello che tanti dicono, sulla base del diritto internazionale. È una violazione del diritto di libera espressione non poterne parlare. Sono appena tornata da un viaggio per rompere l’assedio di Gaza via mare, informazioni che potrebbero interessare ad un consiglio comunale.

La comunità internazionale pare negare ai palestinesi qualsiasi forma di resistenza: la lotta armata è considerata terrorismo, il negoziato mantiene lo status quo, il Bds è etichettato come antisemita. Quale opzione rimane?

È così: la scelta sulla resistenza da praticare è sempre più ristretta dalle pressioni del governo israeliano. Siamo noi, dunque, a dover amplificare la voce dei palestinesi resi muti, mostrando le politiche delle autorità israeliane, visitando i Territori Occupati, organizzando campagne internazionali.

Perché nel caso israeliano è difficile parlare di apartheid, anche a sinistra?

Il governo israeliano lo rende difficile usando l’antisemitismo. Perché è imbarazzante svelare la natura delle politiche nei confronti dei palestinesi: il muro è imbarazzante, il mezzo milione di coloni che confisca terre è imbarazzante, il blocco di Gaza è imbarazzante. Israele sa che tutto questo mina l’immagine di democrazia liberale che si è costruito e allora parla di antisemitismo.

Quali saranno gli effetti sulla Palestina dell’avvento di Trump e la nomina di personalità come Bannon e Kushner?

È preoccupante. il nuovo presidente ha scelto personaggi che sono palesemente anti-palestinesi. Ma non si tratta solo di Trump, accade da decenni: io ho lavorato, prima nell’esercito e poi come diplomatica, sotto otto diverse amministrazioni e le politiche sono sempre state totalmente a sostegno dello Stato di Israele. Nel caso di Trump, ai legami politici si aggiungono quelli economici privati. Ma non cambia molto. Come cittadina Usa non posso che fare il possibile per far sentire la mia voce. Sono salita a bordo di diverse missioni della Flotilla e ora non posso più entrare a Gaza in Cisgiordania perché Israele mi ha deportato due volte. Ma incoraggio altri a farlo.

Dall’esercito Usa alla diplomazia fino alla Flotilla: da dove nasce il suo impegno a favore della causa palestinese?

Mi sono dimessa dal governo Usa come protesta per la guerra in Iraq nel 2003. Poi l’attacco israeliano contro Gaza nel 2009 è stato così orribile e brutale che ho deciso di visitare la Striscia, vedere cosa fosse successo, il livello di distruzione, le deliberate devastazioni di case e uccisioni di civili. Pensare che gli Stati uniti hanno contribuito con armi, addestramento e sostegno senza mai criticare Israele, mi ha spinto a perseguire questo impegno.