Ricorre quest’anno il secolo che ci separa dall’inizio della prima guerra mondiale; ricorre e certamente non si celebra certo soprattutto per i milioni di vittime, ma anche perché il 1914 è «l’anno che segnò l’avvio del suicidio d’Europa e l’inizio del tramonto dell’Occidente», come scrivono Franco Cardini e Sergio Valzania all’inizio del loro La scintilla. Da Tripoli a Sarajevo: come l’Italia provocò la prima guerra mondiale (Mondadori, pp. 208, euro 19); un libro che sin dal titolo, e soprattutto dal sottotitolo, induce ad assumere una prospettiva insolita, almeno per il lettore italiano.

La scintilla, però, non è un libro che sposa la prospettiva di Hobsbawm del Novecento come «secolo breve»; perché, ci dicono gli autori, un discorso sulla prima guerra mondiale deve cominciare almeno con gli anni Settanta dell’Ottocento, quando s’innescò, dopo la sconfitta della Francia contro la Prussia ormai divenuta Germania, il cammino fatale della révanche: quello per cui la Francia, sostenuta dall’Inghilterra desiderosa di vincere la sua gara con la Germania sui mari e appoggiata dalla Russia, disposta a pagare qualunque cifra pur di arrivare al Mediterraneo attraverso i Dardanelli e i Balcani, accettò di fare l’impossibile purché alla Germania fosse negata quella supremazia europea che la sua potenza scientifica, tecnologica, industriale e finanziaria sembrava ormai garantirle; e che del resto la Francia stessa aveva avuto nel mondo moderno due volte – col Re Sole e con Napoleone -, e che l’Inghiltera deteneva ormai ininterrottamente dal Cinque-Seicento almeno sugli oceani.

Da quel cammino di rivalsa sono discesi i nostri mali: con la prima e la seconda guerra mondiale, che sono poi un conflitto unico, e con il Finis Europae dato dall’ascesa, a quel punto inevitabile, degli Stati Uniti d’America e il passaggio a essi della leadership planetaria. Si tratta evidentemente di processi che arrivano fino ai nostri giorni o quasi, ché solo negli ultimi due decenni gli equilibri mondiali tornano a esser scossi da nuove potenze e da nuove emergenze.

In tutto questo, cosa c’entra l’Italia? Nel 1877 la Russia aveva dichiarato guerra alla Turchia: lo zar non riteneva tollerabile oltre lo stato di soggezione e di abiezione in cui i cristiani ortodossi soggetti al sultano, specie nella penisola balcanica, venivano mantenuti; dietro la questione religiosa, come si è detto, pesavano però ragioni geostrategiche. L’esercito russo, giunto alle porte di Istanbul, fu arrestato dalla pace detta «di Santo Stefano» (3 marzo 1878). Ma evidentemente l’impero turco si avviava ormai allo smembramento: e le prerogative che esso dovette concedere in quell’occasione allo zar annientarono definitivamente il suo prestigio e la sua indipendenza. A quel punto, però, l’Europa occidentale si preoccupò di nuovo: soprattutto l’Inghilterra, che temeva un’egemonia russa sulla Turchia (che avrebbe significato le navi russe nel Mediterraneo e l’utilizzazione intensa da parte dei russi del canale di Suez, con una concreta minaccia per la talassocrazia britannica), e l’Austria, inquieta per l’equilibrio nei Balcani.

Nel frattempo, gli elementi non turchi soggetti all’impero, dalla Grecia fino ai Balcani, scalpitavano. L’impero era evidentemente a rischio di disgregamento; ma quel disgregamento avrebbe potuto condurre anche a porre fine allo stato, se non di pace, quanto meno di non conflittualità armata che le potenze europee avevano mantenuto nei decenni precedenti. In tal senso l’aggressione italiana alla Libia, ossia a una periferia dell’impero ottomano, può ben dirsi «la scintilla»: in un contesto potenzialmente esplosivo, fu la causa scatenante di quanto seguì.

Nelle scelte italiane contò soprattutto la volontà di Giolitti di contentare le opposizioni interne di destra. Una vittoria militare avrebbe accresciuto il prestigio e le possibilità economiche del paese, e dunque andava cercata a tutti i costi, rifiutando le proposte di Costantinopoli per cercare un accordo simile a quelli ottenuti con l’Inghilterra per l’Egitto e con la Francia per l’Algeria: entrambi protettorati europei, pur restando sotto l’autorità nominale ottomana.

L’Italia giolittiana andò dunque in guerra. Pensando, come in molte altre occasioni, di risolvere rappidamente il conflitto, e trovandosi invece dinanzi a una resistenza accanita e coraggiosa. Fino al triste epilogo con la cattura dell’ormai anziano Omar al-Mukthat, negli anni il principale leader della resistenza libica all’occupazione: «Il 16 settembre 1931, per ordine di Badoglio e Graziani, in disaccordo su molte cose ma non sugli atti criminali, viene impiccato in tutta fretta un uomo di oltre settant’anni, per di più ferito, colpevole solo di aver combattuto in difesa della propria terra e dei propri compatrioti. (…) Dallo sbarco a Tripoli del 4 ottobre 1911 sono passati venti anni, tre mesi e venti giorni».

In quei due decenni, la resistenza era stata organizzata dai pochi ufficiali turchi presenti nel paese, ch’erano riusciti a portare dalla propria parte e a far sollevare le popolazioni arabe contro gli aggressori, nonostante le speranze degli italiani fossero di segno contrario. Cardini e Valzania analizzano nel dettaglio la mancanza di strategia italiana e il modo pressapochista, nonché spesso estremamente barbaro, con il quale furono condotte le operazioni militari. Tuttavia, sul piano internazionale, sebbene la guerra non andasse liscia come Giolitti aveva sperato, il potere centrale ottomano aveva dato pessima prova di sé, soprattutto quando la minaccia italiana, a partire dalla primavera del 1912, aprì un fronte antiottomano nell’Egeo e contro tutte le coste dell’impero, come il 7 marzo venne dichiarato dall’Italia alle altre nazioni d’Europa.

Oltre che gli Ottomani, però, quell’azione preoccupava non poco gli europei, a partire dalla Germania, alleata sia dell’Italia sia dei turchi; ma preoccupava anche gli inglesi, che sui mari non potevano tollerare concorrenza e che temevano un’occupazione delle isole. È in questo nuovo stato di fibrillazione generale che va collocato lo stato di agitazione delle regioni balcaniche e greche, preoccupate di vedersi imporre un nuovo ordine dalle grandi potenze, una volta che l’impero ottomano ormai al tracollo fosse definitivamente esploso. Quello che seguì è noto a tutti; ma a cent’anni da quegli eventi, in un’epoca nella quale nuovamente l’area compresa tra i Balcani e il Mar Nero è tornata al centro dell’attenzione e delle strategie internazionali, La scintilla diviene un libro di stringente attualità.