La standardizzazione dell’introspezione è uno dei caratteri della recente letteratura di viaggio. In questi anni è il Cammino di Santiago ad aver sostituito nei cliché narrativi qualche altro abusato topos turistico. Interi scaffali occupati da pubblicazioni tutte uguali che si presentano tutte inevitabilmente eccentriche ed alternative (non si capisce bene rispetto a cosa). Urge una moratoria che sospenda la vena poetica di questi viaggiatori di mezza età che partono per il Cammino trovando esattamente quello che si aspettano, presentandolo come una sensazionale scoperta spirituale. La banalità è dietro l’angolo insomma, ma il Cammino non si merita davvero la sorte toccata a Parigi e alla sua nota sindrome, definita da Wikipedia come quel «disagio derivante dalla differenza fra la visione idealizzata della capitale francese che [i turisti] avevano maturato in patria e l’effettiva visione di cui prendono atto durante il soggiorno nella città». Bando ai “luoghi dell’anima” e alle “metafore della vita” allora: il Cammino è una forma di turismo, sui generis, ma non meno di altre destinazioni opportunamente “costruite” per rispondere alle esigenze del turismo globalizzato. Sul Cammino, come sa bene chiunque ne abbia tentato anche solo una parte del tragitto, si incontra di tutto: turisti coreani, studenti americani in anno sabbatico, comitive di italiani; di tutte le età, di tutte le fedi, soprattutto di chi ha poco interesse dell’aspetto religioso del viaggio. Ciascuno alla ricerca di qualche esperienza diversa dal mainstream turistico. Eppure, ancora oggi e nonostante l’evidente inflazionamento, il Cammino conserva ancora qualcosa di genuino e inaspettato in grado di coinvolgere anche il viaggiatore più smaliziato. La banalità introspettiva ha allora un suo fondamento, che purtroppo la sequela di pubblicazioni massificate contribuisce a rovinare piuttosto che alimentare. La dimensione della fatica, ad esempio. Il Cammino è alla portata di tutti, ma pochi sono quelli che possono disporre di un tempo indeterminato per concluderlo. Questo costringe i viaggiatori a lunghe ed estenuanti tappe che mettono alla prova anche il fisico più allenato. Tutti sono più o meno capaci di marciare per trenta chilometri un giorno, ma farlo per un mese di seguito obbliga a rivedere molte della proprie certezze fisiche. La fatica infatti piega e a poco a poco espunge la dimensione ricreativa o culturale del viaggio: arrivare alla meta, sia essa la fine della tappa o la conclusione del Cammino, diventa la sfida attorno a cui si organizzano il proprio tempo e le proprie energie. Molte delle tappe, oltretutto, non hanno alcunché di turistico, se con questo termine intendiamo la possibilità di vedere o vivere la bellezza dei luoghi attraversati. Si marcia a volte per chilometri nelle periferie cittadine, al fianco di qualche statale malmessa, nello smog, o, nel migliore dei casi, in forzata compagnia di torpedoni di turisti capaci di incrinare l’aura solitaria che il Cammino porta con sé. Tuttavia questa varietà di paesaggi – siano essi naturali, culturali o umani – contribuisce al carattere ancora sincero dell’esperienza: nel Cammino permane un’autenticità opportunamente tutelata, ed è questa la sfida vinta dagli enti che ne curano il tracciato. La promiscuità umana a cui si è costretti nei luoghi di ristoro, negli albergues come lungo il percorso, concorre al delicato equilibrio che investe il viandante. Il Cammino è un viaggio che impone la solitudine, anche quando lo si percorre in compagnia, e al tempo stesso obbliga alla condivisione di ogni aspetto della propria temporanea sopravvivenza. La somma di queste caratteristiche contraddittorie restituisce al pellegrino una sensazione effettivamente straniante, che retrospettivamente elabora e trasforma il ricordo del viaggio e lavora nelle suggestioni del viaggiatore in maniera profonda e feconda. La persistenza del Cammino è il dato tellurico che lascia traccia nelle emozioni di chi lo percorre. Non si ritorna da questo insolito pellegrinaggio migliori o peggiori di prima, ma forse più consapevoli e in qualche modo più ricchi. Probabilmente anche questo rientra nelle banalità gridate nei peggiori diari di viaggio “alternativi”. La soluzione è allora partire spogli di qualsiasi esperienza raccontata, vivendolo davvero come se fosse solo un curioso viaggio d’altri tempi. Ogni tappa riserverà la sua scoperta quotidiana, e una volta a Santiago si potranno tirare quelle somme in grado di confondere positivamente le aspettative che ciascuno di noi si sarà inevitabilmente fatto. E’ questo il fascino immutato del Cammino di Santiago.