Nelle isole di Saunders vivono centocinquantamila coppie di pinguini, Sebastião Salgado (Aimorés, Brasile 1944, vive a Parigi) ne ha fotografate molte: tanti segni grafici accostati l’uno all’altro. Si è soffermato anche sull’incontro di due albatri che si guardano come innamorati, inquadrando poi la zampa di un’iguana marina, la coda della balena, il bue muschiato dell’Isola di Wrangel, l’albero con i pipistrelli (Pteropus Rufus) in Madagascar, le renne nel circolo polare artico.

Affascinato dalla magia di un mondo ancora incontaminato è tornato indietro alle origini, affermando con convinzione che non è tutto perduto. Otto anni di lavoro lo hanno portato in giro per il globo, accompagnato quasi sempre dalla moglie Lélia Wanick Salgado, curatrice della mostra Genesi. Fotografie di Sebastião Salgado (prodotta da Contrasto e Zètema Progetto Cultura), che inaugura il tour mondiale al Museo dell’Ara Pacis di Roma (fino al 15 settembre).

Gli occhi azzurri di Salgado accompagnano le parole che scorrono fluide, lasciando percepire il piacere nell’esternare un vissuto personale ricco di esperienze. Tra le duecentoquarantré fotografie in bianco e nero non manca la potenza del Rio Negro e il ritratto degli sciamani Kamayura nel Mato Grosso, come pure gli scatti dedicati a popolazioni che vivono nella totale indifferenza del progresso tecnologico, mostrando la loro autonomia in Papua o in Africa. «Persone che amano come noi, in cui c’è la stessa idea di solidarietà», afferma il fotografo brasiliano, sottolineando il loro equilibrio totale con la natura.

Ma la sfida maggiore, per lui, è stato fotografare gli animali. Il primo con cui si è imbattuto è stata una tartaruga gigante delle Galapagos. «Mi avvicinavo a questo bestione e, camminando, mi chiedevo come avrei fatto a fotografarlo. Normalmente so che per fotografare qualsiasi soggetto bisogna avere con lui una certa intimità. Ma come realizzarla con una tartaruga? Mi sono messo al suo stesso livello, inginocchiandomi. La tartaruga si è fermata. Avanzavo camminando su gomiti e ginocchia. Mi sono bloccato. Mi sono ritirato un po’.
La tartaruga ha capito che le stavo manifestando il mio rispetto. A quel punto, si è incamminata e finalmente è venuta verso di me. Allora ho capito che aveva nei miei confronti la stessa curiosità che io avevo nei suoi. Con quella tartaruga ho passato tre, quattro ore, scoprendo una cosa per me cruciale: per tutta la vita mi avevano raccontato delle bugie. Mi avevano detto che l’essere umano è l’unica specie razionale che esista al mondo! È una menzogna perché ogni specie animale è razionale a suo modo e nel suo ambiente. Quella tartaruga me lo ha dimostrato…».

Attraverso il mirino della macchina fotografica ha guardato il mondo raccontando il Movimento dei Sem Terra, i minatori della Serra Pelada, i lavoratori del caffè, la siccità del Sahel, il genocidio in Rwanda, la malattia, l’infanzia, la guerra… C’è stato un momento in cui la frustrazione dell’impotenza è stata più forte dell’impulso di scattare la foto?

La fotografia è un linguaggio che passerà pure per alti e bassi, ma è fondamentalmente continuo. Questo linguaggio è la mia vita ed è legato al momento storico che viviamo. Non mi sono mai sentito sopraffatto dalla frustrazione. Il tipo di fotografie che faccio rispecchiano la nostra storia che spesso è molto violenta e difficile, ma anche meravigliosa, come vediamo nella mostra Genesi. Sicuramente, ci sono momenti in cui soffriamo di più per le conseguenze delle azioni che noi stessi abbiamo causato, come nella rassegna In cammino a cui lei faceva riferimento.

«Genesi» nasce nel 2004 e si conclude nel 2012. È forse il suo progetto più ambizioso con le cinquanta storie che attraversano oltre trenta paesi, dalle Galapagos alla Siberia. Sembra esserci uno spiraglio di ottimismo quando mostra una natura incontaminata o popolazioni che vivono in armonia con le loro tradizioni secolari, ma soprattutto si respira anche una forte spiritualità. È così?

Assolutamente sì. Ho vissuto dei momenti intensissimi durante questa lunga scoperta del pianeta dal quale, come tutti, mi ero allontanato troppo. Questo mio ritorno è durato otto anni, perché tanto è durata la realizzazione di Genesi. Mettendomi sulla stessa lunghezza d’onda di tutto ciò che mi trovavo di fronte, in cui ero immerso, ho vissuto momenti molto speciali e intensi nei quali mi sono sentito completamente integrato. Non parlo soltanto delle altre specie animali, ma anche di quelle vegetali, piante, alberi e dei minerali. In cambio di questo ho ricevuto un’enorme ricompensa che giustamente lei definisce spirituale. Uso la parola non nel senso religioso. Ho compreso che sono parte di un movimento più grande, cosmico. A volte per realizzare queste foto sono stato seduto giornate intere da solo, in cima alle montagne. Alla fine di una giornata così, ci si sente integrati con il tutto…

[do action=”citazione”]Abbiamo dimenticato la marcia e il camminare, ho avuto il piacere di riscoprire questa dimensione che non solo fa bene, ma riconduce sulla stessa lunghezza d’onda delle altre specie del pianeta[/do]

Camminare è una pratica significativa all’interno del suo lavoro. Ha affermato che per un fotografo è più importante avere delle buone scarpe che una buona macchina fotografica…

È vero, per me la dimensione del camminare, marciare, è importantissima. Per realizzare questo progetto, sono stato costretto a entrare in un mondo ecologicamente puro, perché difficile da distruggere, proprio per via del fatto che è lontano, remoto, troppo arido come il deserto o troppo umido come le zone tropicali o troppo alto in quota, quindi con poco ossigeno e dunque inospitale. Era lì che bisognava andare, nella parte del pianeta che non era stata ancora distrutta e bisognava andarci necessariamente a piedi. Ho marciato per cinquantacinque giorni sulle montagne nel nord dell’Etiopia, percorrendo a piedi ottocento chilometri perché non ci sono strade e i piedi sono l’unico mezzo di trasporto. In quella circostanza, ho capito che camminare non è solo un grande piacere, è anche un enorme privilegio. Di solito trascorriamo il nostro tempo seduti. Ora siamo qui, seduti uno di fronte all’altra, per via del nostro lavoro, poi quando usciremo, ci andremo a sedere in un autobus o in un’automobile, poi andremo forse a pranzo e saremo nuovamente seduti. Ma gli esseri umani non sono nati per stare seduti. Bering, il grande esploratore, quando ha voluto realizzare la sua spedizione in Alaska è andato via da Mosca, attraversando in due anni la Siberia e la Russia a piedi.

Noi abbiamo dimenticato la marcia e il camminare, ho avuto il piacere di riscoprire questa dimensione che non solo fa bene, ma riconduce sulla stessa lunghezza d’onda delle altre specie del pianeta, ha un altro tempo di sguardo, di sincronizzazione dell’essere umano con il tutto.

Proprio per questa dilatazione temporale, le sue sono spedizioni hanno il sapore d’altri tempi. Si munisce naturalmente di GPS, mappe, tenda, sacco a pelo, viaggiando per mesi a piedi, in Piper come a dorso d’asino. L’imprevisto fa parte dell’esperienza, ma c’è una certezza a cui non rinuncia mai: i suoi cereali…
(Ride, ndr)… Sì, perché i cereali sono un complemento alimentare ricco e sostanzioso. Dato che in questi viaggi non c’è sempre la certezza di trovare da mangiare bene e dappertutto, i cereali sono uno strumento facile per operare quella sorta di aggiustamento del regime alimentare di cui non si può fare a meno, se si vuole viaggiare.